La vicenda
Il giudice di pace di Lecce aveva assolto l'uomo per insussistenza del fatto dal reato ex art. 595 c.p. per avere offeso la reputazione di un minore, scrivendo su una chat Whatsapp del gruppo del condominio: "volevo solo far notare al proprietario dell'animale ciò che è stato procurato al volto di mia figlia. Domani al rientro del turno lavorativo prenderò le dovute precauzioni". Ma il procuratore della Repubblica ricorreva al Palazzaccio, sostenendo che il fatto contestato era da considerarsi rientrante nel paradigma di cui all'art. 595 cod. pen., in considerazione della indubbia la portata offensiva del termine "animale" che sarebbe stato invece erroneamente esclusa dal giudice.La decisione
Per gli Ermellini ha ragione. E ha errato il giudice di pace a ritenere che l'espressione "animale" utilizzata in maniera spregiativa nei confronti del bambino che aveva procurato la ferita al volto della figlia del prevenuto fosse inappropriata o eccessiva ma priva di "valenza di offesa dell'altrui reputazione".Se è vero che la recente giurisprudenza di legittimità ha mostrato alcune "aperture" verso un linguaggio più diretto e "disinvolto", è altrettanto vero, scrivono i giudici, che talune espressioni presentano ex se carattere insultante.
Sono obiettivamente ingiuriose quelle espressioni con le quali si "disumanizza" la vittima, assimilandola a cose o animali. Paragonare un bambino a un "animale", inteso addirittura come "oggetto" visto che il padre ne viene definito "proprietario", per la S.C., è certamente locuzione che, "per quanto possa essersi degradato il codice comunicativo e scaduto il livello espressivo soprattutto sui social media, conserva intatta la sua valenza offensiva".
Da qui l'annullamento della sentenza e la parola passa al giudice del rinvio.
Scarica pdf sentenza Cass. n. 34145/2019
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