di Gabriella Lax - Dovrà risarcire il dipendente l'azienda che non aveva concesso allo stesso la pausa per fare pipì. L'uomo, in quell'occasione, si era urinato addosso. Il Tribunale di Lanciano ha accolto il ricorso presentato dal lavoratore, assistito dall'avvocato Diego Bracciale del Foro di Chieti, ed ha condannato la società a corrispondergli una somma di 5mila euro, più la rivalutazione monetaria e le spese di giudizio (v. sentenza sotto allegata).
È lo stesso avvocato Diego Bracciale a spiegarci come sono andate le cose:
- Avvocato Bracciale, ci racconta i fatti?
- E quindi poi cosa è accaduto?
- Quanto è stato importante il contributo dei colleghi con le testimonianze?
- Qual è stato il suo pensiero quando ha preso atto della decisione del tribunale?
Avvocato Bracciale, ci racconta i fatti?
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«Il mio cliente è uno dei lavoratori degli stabilimenti Fca. Premetto che si tratta di un lavoratore modello, che in 10 anni non ha mai ricevuto neanche una lettera di richiamo e, in ambienti aziendali molto ampi, non è una cosa così frequente. Impiegato sulla catena, durante l'orario di lavoro, il mio cliente ha sentito il bisogno di andare in bagno ma non c'era nessuno che poteva sostituirlo. Ha chiamato più volte le persone preposte alla sostituzione temporanea e nessuno si è reso disponibile. Dall'istruttoria del processo è emerso che doveva esserci una figura ogni sette lavoratori preposta a sostituire il lavoratore in caso di necessità. Nessuno ha sostituito il cliente e quindi lui ha dovuto resistere. Arrivato allo stremo della resistenza, ha deciso di lasciare sguarnita la postazione e correre verso il bagno, tuttavia vanamente perché ha urinato in parte nei pantaloni correndo verso i servizi, in parte in bagno dove è arrivato ormai tardi. E' poi tornato sul posto di lavoro, sempre correndo, perché non è ammessa nessuna forma di abbandono senza autorizzazione. Appurando che nessuno aveva ricoperto la postazione, ha dovuto ricominciare subito su quello che era il lavoro di quando era rientrato e cercando, per quanto possibile, di recuperare il lavoro che era andato avanti, perché la catena non si era fermata, chiaramente coi pantaloni intrisi di urina».
E quindi poi cosa è accaduto?
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«Che la società datrice di lavoro non ha voluto minimamente prendere in considerazione questo grave accadimento. E' chiaro che nessuno si voleva arricchire su questa vicenda, ma quantomeno poteva pervenire una lettera di scuse o un risarcimento simbolico, e tanto sarebbe bastato come magra riparazione ad una lesione profonda della dignità dell'uomo prima e del lavoratore poi. La società invece ha voluto negare anche l'evidenza e allora abbiamo dovuto fare causa.
Ho presentato ricorso presso il Tribunale di Lanciano per avere un risarcimento chiesto in via equitativa. Ed è arrivata la condanna. A noi non interessava e non interessa il risarcimento. L'importante è che passi in modo chiaro un messaggio: la tutela dei lavoratori è una cosa che è stata guadagnata nel corso di decenni, e nel 2019 non ci possono essere episodi che ci proiettano 40 anni indietro».
Quanto è stato importante il contributo dei colleghi con le testimonianze?
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«Il contributo dato dai colleghi che si sono prestati a rendere testimonianza è stato importante perché sovente, in realtà così grandi, dove il dipendente è un numero di matricola e basta, senza alcuna forma di contatto personale, può riscontrarsi una sorta di omertà e quindi nessuno vuole mettersi in condizione di avere problematiche e, quindi, ogni volta che in una compagine così grande viene investita di una questione giudiziaria, il primo problema è proprio quello di sostenere una fase istruttoria adeguata. E le uniche prove che possono entrare nel processo solitamente posso essere riferite a mezzo testi. Ma il fatto è stato così grave che coloro che si trovavano nella postazioni a fianco senza nessuna esitazione hanno inteso prestarsi, e come scrive il giudice in sentenza sono state deposizioni "univoche, concordanti, lineari e coerenti" ».
Qual è stato il suo pensiero quando ha preso atto della decisione del tribunale?
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«Sono soddisfatto per il cliente perché è una questione che lo ha particolarmente provato. Comprenderà che in un ambiente molto ampio ed eterogeneo sotto il profilo umano, non esistono soltanto i galantuomini ma esistono anche elementi poco signorili, e qualcuno, per quanto accaduto, ha anche apostrofato il mio cliente in maniera assai poco gradevole per un fatto che, invece, avrebbe potuto essere evitato, assecondando un naturale ed ovvio bisogno fisiologico del lavoratore. La soddisfazione per lui da parte mia è stata immensa anche per la risonanza che la vicenda ha avuto. Ma la mia speranza aldilà della questione professionale trattata è poter sperare nella diffusione di un monito ben preciso: Il tema della tutela dei diritti dei lavoratori ha bisogno ancora oggi di un particolare occhio di riguardo, attento e severo».
L'avvocato Diego Bracciale sottolinea infine che il lavoratore non era iscritto ad alcuna sigla sindacale e non lo è tutt'oggi. «Questo è un fatto molto importante - chiosa il legale - perché spesso, in grandi compagini lavorative, si tende a prendere di mira proprio coloro che hanno un collegamento ad una sigla sindacale. Il mio cliente non appartiene ad alcun sindacato però l'unione sindacale di base per il lavoro privato (USB Abruzzo) che ringrazio per la fiducia che sistematicamente ripone nel mio studio legale, ha preso a cuore questa problematica ed ha assistito il lavoratore, benché non iscritto, sotto il profilo lavorativo, umano e finanche psicologico».
Scarica pdf sentenza tribunale di Lanciano n. 111/2019• Foto: 123rf.com