Le prestazioni, pertanto, di ciascun Paese avranno una componente comune basata su circostanze esterne e una componente individuale basata sul proprio peculiare comportamento modellato dalla storia e dalla politica, anche se le idee sulla politica delle "migliori pratiche" sono fortemente correlate in tutto l'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico).
Dall'età dell'oro alla vigilia della crisi
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Negli studi comparativi sulla crescita economica europea è diventato convenzionale considerare il periodo 1950-73 come "l'Età dell'Oro".
L'Italia registrava in quel periodo una crescita del PIL reale per persona di quasi il 5% all'anno, anche, grazie al recupero del basso livello del reddito iniziale nel 1950. La crescita della produttività del lavoro si attestava in media del 6,8% nell'industria e del 5,7% nell'agricoltura che, comunque, diminuiva rapidamente (44% dell'occupazione nel 1951 e il 18% nel 1973).
Un recupero di crescita che partiva dall'"arretratezza" e dalla riduzione dell'inefficienza e che derivava in particolare dal trasferimento di manodopera dall'agricoltura all'industria e dalla realizzazione di sostanziali economie di scala. All'inizio degli anni '60, dopo il "miracolo economico", questo modello fu messo sotto pressione e i tentativi di correggere le forze destabilizzanti generate dal modello stesso fallirono. Il salario e lo shock petrolifero intorno al 1970 da un lato e il declino del fordismo (organizzazione della produzione di massa con ricerca della qualità e capace di creare il mercato) dall'altro, generavano ovunque in Europa - sebbene in forme diverse e a velocità diverse - processi di macro e micro aggiustamento.
L'Italia cambiava relativamente poco. Arrivata vicino alla frontiera tecnologica, l'economia si è rivelata troppo lenta per adattarsi al nuovo contesto, nonostante il successo nel mitigare le inflessibilità e sviluppando un modello di capitalismo regionalizzato basato sulle piccole e medie imprese.
Ammortizzata dall'inflazione e dalla svalutazione, la crescita è rimasta relativamente elevata negli anni '70. Nel decennio successivo, nonostante il miglioramento delle condizioni per affrontare gli squilibri macroeconomici (il lungo ciclo espansionistico delle principali economie, la fine dell'"era della spinta salariale", la decelerazione dell'inflazione, la nuova politica monetaria dopo l'adesione allo SME) venivano trascurati gli adeguamenti strutturali, in particolare per quanto riguardava la disciplina fiscale e le politiche di concorrenza nei settori protetti.
Lo strumento principale della speciale politica di sviluppo, la "Cassa del Mezzogiorno", si rivelò essere un organo indipendente dalla Pubblica Amministrazione.
Tra il 1951 e il 1973, il divario Nord-Sud in termini di PIL pro capite subì una forte riduzione per la prima e unica volta nella storia. Il Sud ebbe effetti positivi sulla crescita del resto d'Italia. Manodopera poco qualificata ed economica, particolarmente adatta al modo di produzione fordista, si riversò dal settore agricolo meridionale al settentrione. Soprattutto prima della creazione del mercato comune europeo, il mercato in crescita nel Sud aveva aumentato la domanda di prodotti del Nord. Alla fine degli anni '50, il 70% delle esportazioni nette del Centro-Nord erano dirette verso il Sud. La crescita del mercato interno permise di realizzare economie di scala nelle imprese del Nord.
La liberalizzazione del commercio rappresentò un fattore importante dell'Europa occidentale e in Italia, il passaggio a una maggiore apertura facilitò un processo di crescita trainato dalle esportazioni poiché la quota italiana delle esportazioni mondiali di manufatti aumentò dal 3,7% nel 1950 al 6,8% nel 1973.
Inizialmente, le imprese pubbliche erano una via per accelerare gli investimenti e avevano un'alta autonomia gestionale per poter raggiungere l'efficienza economica. In particolare, l'IRI aveva aiutato lo sviluppo del settore privato fornendo input intermedi economici e compensando la debolezza delle imprese private in questo campo. Negli anni '60, tuttavia, le imprese pubbliche erano sempre più attratte da scopi politici. Questo processo degenerativo coinvolse, anche, le banche di proprietà dell'IRI. Mentre negli anni '50 e '60 venivano stanziate risorse finanziarie in modo efficiente, negli anni successivi vi furono ostacoli nella selezione di imprese innovative, a causa dalla crescente influenza delle influenze politiche.
Il boom degli investimenti del dopoguerra era stato in gran parte finanziato da un'alta percentuale di profitti nel reddito nazionale. L'Italia non possedeva né un sistema finanziario basato su banche né un sistema finanziario basato su azioni, ma uno in cui il "governo societario" era in gran parte basato su gruppi piramidali controllati dalle famiglie, grandi imprese statali e banche che erano esse stesse in gran parte sotto il controllo statale. Il picco si raggiunse nel 1958-1963 con il culmine del "miracolo economico" che aveva trasformato l'Italia in un'economia industriale, ma tensioni emergenti minacciavano l'instabilità, in particolare il potenziale conflitto tra il sostenere la crescita sulla base di bassi salari e le richieste di maggiori consumi derivanti dal positivo sviluppo economico.
Nel 1963, alla fine del "miracolo economico", la politica monetaria divenne improvvisamente restrittiva di fronte ai crescenti squilibri della bilancia dei pagamenti e alle pressioni inflazionistiche. Queste ultime guidate dalla prima significativa spinta salariale degli ultimi cinquant'anni, nel contesto della riduzione della disoccupazione. La reazione politica ebbe successo nell'arrestare gli aumenti salariali e nell'evitare una temuta svalutazione e l'economia riuscì a ritornare su un percorso di crescita di equilibrio (sebbene più lento) fino all'inizio del successivo decennio.
L'economia era cresciuta a tassi incredibilmente alti negli anni precedenti, l'ipotesi generale era che questa velocità potesse essere facilmente mantenuta e che il compito principale lasciato alla politica economica era di dirigere le risorse prodotte dalla crescita verso gli obiettivi favoriti. Per raggiungere questo risultato veniva progettato un programma macroeconomico per affrontare i principali problemi strutturali dell'economia, vale a dire il divario Nord-Sud, il welfare, la regolamentazione antitrust e la riforma del diritto societario.
La questione della concorrenza era stata affrontata con la proposta di smantellare i monopoli esistenti non garantendo, però, un'adeguata regolamentazione del mercato che promuovesse la concorrenza, ma mediante la nazionalizzazione di interi settori. Mentre il caso di fallimento del mercato era riconosciuto, il caso di fallimento dello Stato doveva ancora essere preso in considerazione.
Nel complesso, le imprese avevano incontrato notevoli difficoltà nell'accelerare l'innovazione per compensare il declino del modello di recupero basato su un'offerta di lavoro "illimitata" e sul trasferimento tecnologico. Gli obiettivi fissati dalla programmazione non erano compatibili con l'inefficienza della pubblica amministrazione.
Inoltre, l'ambizione dello Stato di guidare il mercato in direzioni strategiche si era trasformata in una radicale riduzione dell'autonomia dei leader economici, sempre più subordinata alle lobbies e ai partiti politici. Il progressivo contributo delle imprese controllate dallo stato si concluse gradualmente, accentuando la crisi degli anni '70 delle grandi imprese nei settori dell'acciaio, dell'energia e delle sostanze chimiche che aveva guidato la convergenza della struttura industriale italiana durante l'età d'oro.
L'incapacità nel 1963 di adattare le istituzioni, i regolamenti e la portata dell'intervento pubblico nell'economia alle nuove circostanze create dalla crescita poteva essere considerata come un chiaro riflesso di una caratteristica di lunga data della politica economica italiana, vale a dire la debolezza della cultura della politica di riforma, schiacciata tra l'"alternativa al sistema", a quel tempo avanzata dal principale partito di opposizione da un lato e la difesa di interessi particolari e diffusi dall'altro.
Dagli anni '70 agli anni '90 intervennero alcuni aspetti inevitabili come l'esaurimento delle componenti transitorie di rapida crescita come la ricostruzione postbellica, la riduzione delle opportunità di ridistribuire il lavoro fuori dall'agricoltura, la riduzione del divario tecnologico e la riduzione dei ritorni sugli investimenti. Dal 1970 alla metà degli anni '90 la discrepanza derivava da una diminuzione della quantità di lavoro svolto dagli europei rispetto agli americani, caratterizzata da una combinazione di aumento della disoccupazione, pensionamento anticipato e vacanze più lunghe.
I paesi europei lottavano per far fronte alle conseguenze della turbolenza macroeconomica per poter abbracciare la distruzione creativa, adattandosi a un'economia mondiale in evoluzione e per ottenere una rapida crescita della produttività nel settore dei servizi sempre più dominante. Si ruppe il modello di moderazione salariale e aumentarono la regolamentazione, la tassazione e le spese per i trasferimenti sociali. L'Italia si distinse per un livello molto elevato di protezione dell'occupazione e lentezza nel ridurre la regolamentazione del mercato dei prodotti (un costo di circa 0,7 punti percentuali all'anno negli anni '80 e '90 rispetto all'adozione di una posizione simile in paesi più liberali).
Sempre nello stesso periodo la concorrenza internazionale si basava più sulle innovazioni dei prodotti e meno sulla produzione di serie standardizzata. L'industria italiana condivise queste tendenze generali con particolare intensità sia perché la struttura industriale era già caratterizzata negli anni '50 e '60 da una quota relativamente grande di piccole e medie imprese e dall'importanza dei distretti industriali sia perché dopo il "caldo autunno" del '69, le grandi aziende reagirono decentralizzando la produzione a causa della rapida crescita delle rigidità emerse nel processo di produzione. L'emergere di nuove piccole e medie imprese si concentrò principalmente nelle loro posizioni storiche nel Centro e nel Nord, dando forma a una sorta di "modello di capitalismo regionalizzato" basato su economie di agglomerazione, su reti locali e meccanismi di coordinamento non di mercato nonché sull'accumulo di conoscenze tacite. La debolezza dell'imprenditoria indigena, principale fallimento della speciale politica di sviluppo (es.Cassa Mezzogiorno), fu quella di aver impedito la crescita di piccole e medie imprese flessibili nel sud, seppur le P.M.I., in termini di prestazioni di produttività, investimenti e profitti si rivelarono significativamente migliori rispetto a quelle delle grandi aziende.
La politica economica italiana negli anni Settanta era fondamentalmente fondata sull'irrilevanza del vincolo del bilancio pubblico, sulla dipendenza della politica monetaria dalle esigenze di bilancio e su un approccio dirigista degli interventi pubblici.
Intorno agli anni '80, tre eventi segnarono una svolta nella politica economica: la partecipazione al Sistema monetario europeo, il "divorzio" della Banca d'Italia-Tesoro (con il quale la Banca fu liberata dall'obbligo di acquistare il debito pubblico invenduto nelle aste del Tesoro), che mirava a indurre un comportamento virtuoso da parte del settore pubblico aumentando i costi di emissione di nuovi debiti e introducendo una forma di politica dei redditi, attraverso la predeterminazione di aumenti di retribuzione automatici relativi all'inflazione al fine di guidare le aspettative sui prezzi.
Il principale ostacolo al completamento dell'adeguamento era causato dall'incapacità di affrontare il problema del debito pubblico. I programmi per ridurre i deficit venivano regolarmente scartati. Il debito pubblico era aumentato ulteriormente dal 60% del PIL nel 1980 a oltre il 100% nel 1991. Il settore estero aveva acquistato quantità significative di titoli di Stato attratti dalla stabilità del tasso di cambio e dagli alti tassi di interesse. Le implicazioni a lungo termine di consentire al rapporto debito / PIL di aumentare così tanto risultavano sfavorevoli per la crescita attraverso una serie di meccanismi di trasmissione, tra cui le riduzioni della formazione di capitale del settore di mercato, tassi di interesse a lungo termine più elevati e aliquote fiscali più elevate.
Gli anni '90
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Dopo la metà degli anni '90, il recupero dell'Europa occidentale e degli Stati Uniti in termini di produttività del lavoro cessò.
La grande svalutazione della lira nel 1992-1995 produsse un netto miglioramento della competitività e la fiducia era per il momento ripristinata e il rapporto debito pubblico / PIL scese dal 125% nel 1994 al 103% nel 2004.
Il volume delle privatizzazioni in Italia fu impressionante, in termini di ricavo, secondo solo al Regno Unito nel periodo 1979-1999. Tuttavia, lo scopo era principalmente finalizzato alla riduzione del debito pubblico per cui solo il 30% del valore delle transazioni comportava un trasferimento di controllo, mentre non fu colta l'occasione di introdurre la concorrenza nei servizi di pubblica utilità come l'elettricità e il gas e la regolamentazione restò inadeguata.
In termini di quantità d'istruzione, l'Italia, aveva lentamente recuperato, ma la qualità era rimasta indietro e il quadro era particolarmente preoccupante per quanto riguardava le capacità cognitive misurate dalle prestazioni in test internazionali, soprattutto, in matematica. Tra le possibili ragioni della qualità relativamente bassa dell'istruzione in Italia, si doveva escludere una carenza di spese per l'istruzione; al contrario, l'Italia spendeva di più per studente di molti paesi che ottenevano risultati molto migliori. Il problema era da ricercarsi nell'organizzazione del sistema scolastico e nell'inefficace modo di affrontare i problemi principali, cioè il saper trasferire la conoscenza e insegnare. L'Italia, infatti, era rimasta indietro rispetto ad altri paesi, soprattutto in termini di mancanza di autonomia delle scuole e nel non fornire incentivi e sanzioni agli insegnanti.
Altro importante fattore strutturale che poteva potenzialmente ostacolare la crescita era la posizione "anomala" dell'Italia nel commercio internazionale che aveva le sue radici nella forza delle piccole e medie imprese che producevano nei distretti industriali. Rispetto ad altre economie del G7, le esportazioni italiane rimanevano inclinate verso settori a bassa tecnologia e ad alta intensità di manodopera come il tessile e le calzature e lontano dalle attività ad alta tecnologia. Ciò significava che l'Italia era più esposta alla concorrenza della Cina e di altre economie asiatiche più dinamiche e meno ben posizionata per beneficiare dei settori in rapida crescita nel commercio mondiale mentre le prestazioni delle esportazioni, soprattutto in mercati distanti, venivano frenate dalle piccole dimensioni delle imprese italiane.
L'adesione all'UEM (Unione economica e monetaria europea) non è stata una strategia priva di rischi, soprattutto per un paese con una debole crescita della produttività e un elevato rapporto debito pubblico / PIL, dato che l'Eurozona non è un'area valutaria ottimale. Esistevano chiaramente pericoli a causa della perdita di competitività internazionale e questo si è concretizzato. Ex-post, l'esperienza dell'adesione all'UEM è stata molto meno confortevole di quanto si sperasse ex ante. Il beneficio per la sostenibilità fiscale previsto dalla riduzione del divario tra il tasso di interesse e il tasso di crescita era minacciato dall'inefficacia della mancata riforma dal lato dell'offerta, dalla debole performance della produttività, dalla perdita di competitività e dai timori circa la volontà politica di mantenere la disciplina di bilancio. Investimenti e crescita sono stati potenzialmente indeboliti piuttosto che stimolati da un alto tasso di cambio reale e dallo sbalzo del debito. Il tasso di crescita fino allo scoppio della crisi finanziaria (1999-2008) era la metà di quello dell'area dell'euro e della media per il periodo 1980-1999.
Esistevano alternative per l'Italia?
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In sintesi, dopo l'Età dell'Oro, l'Italia ha incontrato crescenti difficoltà nell'adattare la sua economia al mutevole contesto esterno e ai requisiti per sostenere la crescita di recupero a un livello superiore di sviluppo economico. La questione dell'adeguamento è comune ai paesi avanzati, ma le difficoltà incontrate in Italia sembrano particolarmente gravi. Il punto è che l'Italia ha avuto un maggiore bisogno di riforme dopo il successo del primo dopoguerra e che l'Italia ha avuto più problemi nel realizzare riforme efficaci.
Tra le varie cause:
-una caratteristica di lunga data della società italiana, ad eccezione di periodi molto limitati, causata da conflitti tra gruppi e partiti opposti;
- per le imprese, la capacità di sfruttare condizioni favorevoli è variata nel tempo. Sono stati in grado di farlo durante l'Età dell'Oro grazie ai bassi salari e all'apertura dell'economia alla concorrenza esterna. Negli anni '70, hanno superato l'emergenza a causa della svalutazione e della generosa politica fiscale; alla fine del decennio, le grandi imprese sono state in grado di rinnovare il capitale sociale mentre le piccole imprese hanno reagito sviluppando un modello originale locale. Più tardi, tuttavia, quando il contesto tecnologico iniziò a cambiare e richiedeva più innovazioni di prodotto, più investimenti nella ricerca e corrispondenti cambiamenti nell'organizzazione del processo produttivo, le aziende italiane si trovarono in crescenti difficoltà che continuano ancora oggi;
- la riforma della Pubblica Amministrazione per aumentarne l'efficacia. L'importanza e le ragioni di ciò sono state ampiamente dibattute durante l'intera storia dell'Italia e hanno investito tutti i settori della politica economica. Una debolezza, probabilmente, correlata alla crescente influenza dei gruppi di interesse che hanno invaso e invadono sia la Pubblica Amministrazione che la politica. In ogni caso, dal momento che la qualità delle istituzioni e dei servizi pubblici è importante per la crescita, soprattutto nel contesto della gestione della globalizzazione, restare indietro su questo fronte comporta gravi rischi. La scarsa qualità dei servizi pubblici necessita di cambiamenti nel design istituzionale politico in modo da aumentare la possibilità di prendere decisioni sostanziali.