di Lucia Izzo - Rischia il carcere per il reato di atti persecutori lo stalker che per diversi anni tormenta con offese, minacce e molestie la vittima, anche tramite social network, attaccandola con post pubblici offensivi e minacciosi, al punto da costringerla a bannare il molestatore e a bloccare le chiamate in entrata sul suo cellulare. Le reiterate condotte del social stalker hanno infatti ingenerato nella vittima un perdurante stato d'ansia, portandola a temere per la sua incolumità e a modificare le sue abitudini di vita.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 45141/2019 (sotto allegata) pronunciandosi sulla vicenda di un uomo condannato a dieci mesi di reclusione per i reati di cui agli artt. 612-bis e 595 del codice penale.
- Il caso: offese e minacce su Facebook
- Stalking integrato anche dalle molestie su Facebook
- Sufficiente un solo evento per integrare lo stalking
- Irrilevante il riavvicinamento tra vittima e persecutore
Il caso: offese e minacce su Facebook
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Nel dettaglio, l'imputato era accusato di avere, con condotte reiterate, offeso, molestato e minacciato una donna e le persone a lei vicine, nonché di aver offeso la sua reputazione attraverso post pubblici su Facebook.
In Cassazione, il prevenuto contesta il reato ascrittogli, ritenendo che la vittima non non avesse sofferto di alcun grave e perdurante stato d'ansia, né di un cambiamento delle sue abitudini di vita. Evidenzia di aver intrattenuto con la donna numerose conversazioni e mantenuto contatti di vario tipo, che la stessa gli aveva concesso il suo numero di telefono e che, solo una volta, gli aveva impedito ogni interferenza con i suoi profili Facebook utilizzando la procedura di "banning".
Di diverso avviso gli Ermellini che, invece, sottolineano come il ricorso sottenda una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, non consentita in sede di legittimità, essendo questa riservata al giudice di merito.
Tra l'altro, con motivazione logica, ampia ed esaustiva, prima di contraddizioni, la Corte territoriale ha ritenuto sussistente il reato di stalking, basandosi sulle dichiarazioni della persona offesa (logiche e coerenti), riscontrate da specifici episodi e dalle dichiarazioni dei suoi amici.
Stalking integrato anche dalle molestie su Facebook
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L'uomo è stato accusato a causa delle continue molestie nei confronti della donna, durate oltre sette anni e attuate anche tramite messaggi e post diffusi sui social network, nelle quali veniva fatto utilizzo di un infinito numero di espressioni aspramente offensive, ma anche minacciose.
E in base a tali rilievi i giudici di merito hanno ritenuto sussistente gli eventi di danno di cui all'art. 612-bis c.p., ovvero lo stato di ansia, tensione e paura indotto nella vittima, considerato anche il lungo arco temporale in cui l'imputato aveva posto in essere il comportamento persecutorio che ha ha impedito alla donna di svolgere una vita normale, anche sotto il profilo delle relazioni personali.
A seguito di tali condotte, la vittima era stata costretta a modificare le proprie abitudini di vita: aveva dovuto chiedere spesso l'aiuto di amici per farsi accompagnare a casa, temendo le intrusioni dello stalker, era stata costretta a installare un blocco in entrata nelle chiamate in arrivo dei propri apparecchi telefonici e, infine, aveva dovuto giustificarsi continuamente con i suoi contatti, anche di lavoro, a causa delle continue intrusioni diffamatorie dell'imputato sui social network.
Sufficiente un solo evento per integrare lo stalking
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Gli Ermellini rammentano che la fattispecie di atti persecutori è strutturalmente un reato abituale ad evento di danno che prevede più eventi in posizione di equivalenza, uno solo dei quali è sufficiente ad integrarne gli elementi costitutivi necessari, ovvero cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, oppure ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o dì un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero, ancora, costringere la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita.
Nel caso di specie, dallo stesso narrato della persona offesa emerge quantomeno il determinarsi dell'evento dello stato di ansia e tensione, che prescinde dall'accertamento di un vero e proprio stato patologico e non richiede necessariamente una perizia medica, potendo il argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell'agente sull'equilibrio psichico della persona offesa, anche sulla base di massime di esperienza.
Irrilevante il riavvicinamento tra vittima e persecutore
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È sufficiente, dunque, che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima e la prova dell'evento del delitto (causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura) ben può essere ricavata, oltre che dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente e anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata, elementi questi tutti adeguatamente rappresentati nella sentenza impugnata.
Tale conclusione non è scalfita dalla sussistenza di momenti di avvicinamento tra la vittima e lo stalker. La stessa Cassazione (nell'ipotesi di atti persecutori commessi nei confronti della ex convivente) ha più volte confermato che l'attendibilità e la forza persuasiva delle dichiarazioni rese dalla vittima del reato non sono inficiate dalla circostanza che all'interno del periodo di vessazione la persona offesa abbia vissuto momenti transitori di attenuazione del malessere in cui ha ripristinato il dialogo con il persecutore (cfr. Cass. n. 5313/2014).
Scarica pdf Cass., V pen., sent. 45141/2019• Foto: 123rf.com