E' parimenti innegabile il fatto che ciò spesso poggia sulla sicurezza di trovare un valido supporto innanzitutto negli enti di patronato che, prestando un'importantissima opera di supporto in questo senso, rappresentano un sostegno fondamentale per i cittadini. Essi impersonano, il più delle volte, l'interlocutore preliminare dell'utente/lavoratore/pensionato, in grado di fornire un primo approccio professionale alla problematica evocata.
L'irripetibilità delle pensioni
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Le pensioni possono essere in ogni momento rettificate dagli enti erogatori in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione o di erogazione della stessa, ma ciò non comporta il recupero delle somme così corrisposte, a meno che la prestazione indebita sia conseguenza di un comportamento doloso posto in essere dall'interessato.
La Cassazione (cfr., ex multis, sentenza n. 482/2017) ha sancito il cosiddetto principio generale dell'irripetibilità delle pensioni che fa discendere direttamente dall'applicazione dell'art. 52 L. n. 88/89.
Il caso
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La specifica questione di fatto da cui trae origine la pronuncia della Suprema Corte, riguarda il caso di richiesta da parte dell'INPS della somma indebitamente percepita a titolo di pensione, corrispondente ad una maggiore retribuzione provvisoriamente attribuita ad un pubblico dipendente in base all'esito, non definitivo, di una selezione concorsuale successivamente annullata dal giudice amministrativo con decisione definitiva.
Secondo la tesi prospettata dall'Istituto, tale maggiore retribuzione non poteva assurgere a diritto quesito proprio perché il contratto alla cui base era sorta, era stato successivamente annullato. Sulla base di ciò, venivano quindi azionate le richieste volte al recupero dell'indebito pensionistico così maturato e - nel frattempo - già percepito dal lavoratore/pensionato.
La Cassazione sul principio di irripetibilità delle pensioni
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La Corte di legittimità ha ritenuto invece del tutto prive di fondamento tali motivazioni, disattendendo le domande dell'INPS.
Il principio di diritto da cui muove la sentenza si basa sull'art. 2126 c.c., secondo cui "la nullità o l'annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione".
L'applicazione di tale norma, come sottolineano gli Ermellini, rende intangibile sia la retribuzione, sia la pensione che matura alla stregua della retribuzione così corrisposta.
A questo punto, il ragionamento giuridico prosegue con la lettura incrociata di tale ultima norma con l'art. 8 d.P.R. n. 818/57, secondo cui "rimangono acquisiti e sono computabili agli effetti del diritto alla prestazione assicurativa i contributi per i quali l'accertamento dell'indebito versamento sia posteriore di oltre cinque anni alla data in cui il versamento è stato effettuato".
Ne consegue pertanto che: ogni qualvolta ci si trovi nella situazione per cui si è percepita una somma, a titolo di retribuzione, maggiore e diversa rispetto a quella legittimamente spettante, ma per una prestazione comunque realmente eseguita, non importa se il contratto che ne fosse alla base sia poi stato ritenuto nullo ovvero sia stato annullato, avendo importanza solo la circostanza che ciò non sia dipeso da dolo dell'interessato, in tutti questi casi la pensione maturata su tali maggiori retribuzioni è perfettamente attribuita.
L'unico modo per ovviare a tale situazione è che i contributi erroneamente maggiormente versati siano stati accertati come "indebito" nel quinquennio successivo al loro versamento, ma se ciò non accade essi divengono consolidati e su di essi matura un regolare diritto pensionistico.
La portata innovativa della sentenza richiamata è indubitabile e va a tutelare la buona fede del lavoratore/pensionato che, diversamente, sarebbe illegittimamente calpestata.
Avv. Alessandra Donatello
avvocato e mediatore civile e commerciale
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