di Marina Crisafi - Accesso alla professione di avvocato, conflitto di interessi, corruzione e criminalità organizzata. Accostamenti che possono sembrare insoliti e "inquietanti" ma che sono ben sviscerati nel saggio "Criminalità organizzata e contraddizioni mafiogene degli Stati globalizzati" di Vittorio Corasaniti (in foto), docente a contratto dell'Università di Milano-Bicocca e presidente del CERSDH, Centro Europeo per la Responsabilità sociale e i Diritti umani.
Il saggio, edito da Pacini Giuridica, che sarà presentato domani 5 dicembre 2019, presso l'hotel Ascot a Milano, indaga sul fenomeno della criminalità organizzata 2.0 e sui limiti del diritto penale nel sistema giuridico internazionale e fa un interessante focus sulle difficoltà di accesso alla professione di avvocato in Italia e sui suoi effetti collaterali: dal turismo forense alla ricerca di strade meno "tortuose" e, per questa via, al conseguimento illecito del titolo.
Professor Corasaniti, nel suo libro analizza le origini e il proliferare della criminalità organizzata 2.0 e delle contraddizioni mafiogene nel contrastarla. Ci spiega meglio?
"Il periodo storico in cui viviamo è caratterizzato da una forte dissonanza cognitiva degli Stati, che pretendono di far fronte a fenomeni criminali complessi senza accorgersi di esserne una concausa.
Il libro analizza non solo le grandi organizzazioni criminali che negli scorsi decenni si sono avvalse della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti (come recita l'attuale art. 416 bis c.p.), ma anche realtà più complesse in cui il crimine non è completamente contrapposto allo Stato.
Indice di questo andamento è il proliferare di strumenti internazionali inerenti la lotta alla corruzione e al riciclaggio in quanto delitti che permettono l'entrata diretta del crimine nelle istituzioni.
Per arginare il fenomeno, lo Stato non può più solo intendersi come un ente astratto costituito da altrettanti enti giuridici ad esso subordinati, ma deve dare rilievo agli individui in quanto portatori di diritti e di doveri, condividendo quella parte di responsabilità nello sviluppo delle istituzioni democratiche che è oggi delegabile grazie alla tecnologia e all'informazione accessibile su scala globale e scommettendo sulla partecipazione della società e la promozione della trasparenza".
In questo contesto, come si inserisce l'accesso alla professione forense?
"La mancanza di trasparenza del procedimento di accesso alla professione in Italia sta causando effetti collaterali notevoli, tra cui il turismo forense tra gli Stati membri dell'Unione Europea alla ricerca di un varco di accesso meno tortuoso, che si traduce anche in conseguimento illecito del titolo di avvocato.
Dopo anni di inutili tentativi e mancato successo alle prove scritte, il candidato avvocato che non può conoscere i motivi del suo fallimento (la parte della legge 247/12 che prevede l'obbligo di motivazione del voto numerico delle prove scritte non è mai entrata in vigore) va incontro a un cambiamento profondo delle sue convinzioni, per cui l'ottenimento del titolo non è più solo la normale coronazione della sua carriera lavorativa, ma diventa finalità ossessiva, nella persuasione di aver gettato anni di studio e di arduo lavoro da tirocinante.
Questa ossessione lascia spazio a fenomeni corruttivi perpetrati magari da chi, dopo anni di sfruttamento e inutili spese in preparazione alle prove scritte in Italia è disposto a pagare un "contributo" una tantum per la convalida del titolo di laurea all'estero.
Ne derivano casi come quello di Madrid, dove attualmente la magistratura spagnola sta indagando sulla denuncia dell'Observatorio contra la corrupciĆ³n, inerente la frode per la compravendita di 500 titoli di abogados italiani".
Lei parte dall'indagine della procura spagnola sulla presunta frode in merito ai titoli di avvocato e arriva alla situazione italiana, vera radice del problema, perché?
"Quanto accade in Spagna è l'effetto collaterale di ciò che succede in Italia.
La correzione degli scritti si presta all'arbitrarietà e all'aleatorietà, come ha del resto confermato il Ministro della Giustizia Bonafede durante il suo intervento dello scorso ottobre alla prima seduta giurisdizionale del Consiglio Nazionale Forense.
Come se non bastasse, le commissioni esaminatrici e gli organi predisposti al controllo giurisdizionale (TAR, Consiglio di Stato e persino la Corte Costituzionale) si compongono di professori e coordinatori di scuole private in preparazione all'esame e degli autori dei codici commentati che ogni anno fruttano milioni di euro di introiti e che vengono usati dai candidati avvocato per affrontare le prove scritte.
Un palese conflitto di interessi oggi al vaglio della Commissione europea, che mutatis mutandis era già stato segnalato nel 2018 dal Gruppo degli Stati del Consiglio d'Europa contro la corruzione, il quale aveva raccomandato all'Italia di rafforzare i controlli sulle dichiarazioni finanziarie dei magistrati, specie in merito agli incarichi extra lavorativi.
In uno stato di diritto, è inaccettabile che l'accesso alla professione forense sia protetto di fatto dal segreto di stato, come hanno del resto stabilito la Corte Costituzionale (sentenza 175/2011) e il Consiglio di Stato (sentenza 7/2017), secondo cui la correzione delle prove scritte è esente dall'applicazione del principio di trasparenza.
Ne derivano gravi danni alla libera concorrenza, che si traducono in vere e proprie distorsioni della percezione dello stato di diritto, specie per quella categoria di professionisti la cui aspirazione deve essere la ricerca della giustizia.
La mancanza di trasparenza sancita dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la Corruzione e dal Trattato di Nizza, da una parte, e la mancanza di un giudice terzo e imparziale e dell'accesso alla giustizia stabiliti dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti umani, dall'altra, rischiano inevitabilmente di tradursi nella disponibilità ad aggirare un sistema ai limiti della legalità, che ha urgente bisogno di essere riformato.
Si pensi al caso del praticante a cui il TAR Lombardia ha "abbassato" i voti degli scritti, probabilmente riprendendo l'ordinanza che era stata emessa per un altro candidato ricorrente. Si pensi ancora allo stesso caso, questa volta in appello, per cui il Consiglio di Stato ha dichiarato legittima la nomina di un commissario sprovvista di data leggibile e di numero di protocollo, rifiutandosi addirittura di applicare il principio tempus regit actum e la legge in vigore al momento della correzione di quegli scritti nel maggio 2018 (che prevedeva l'obbligo di motivazione del voto numerico), confermando la condanna del ricorrente a 2.000 euro di spese cautelari più accessori.
Tra i giudici che hanno emesso quelle ordinanze, vi sono rispettivamente un coordinatore di una scuola forense in preparazione alle prove scritte e un ex autore dei codici commentati, che si sono tra l'altro basati su pregressa giurisprudenza di colleghi nella loro stessa situazione di conflitto di interessi.
Insomma, se le istituzioni che devono garantire la trasparenza del procedimento non agiscono con metodi conformi ai principi fondamentali sanciti dalla Costituzione e dagli strumenti internazionali in materia corrono il rischio di minare sul nascere le basi della democrazia, stante soprattutto il soggetto vittima della violazione che, vale la pena ricordarlo, è un futuro avvocato di cui si auspica l'inserimento nella Carta fondamentale in quanto garante dello stato di diritto".
Secondo lei le proposte di legge in Parlamento potrebbero cambiare questo stato di cose?
"In questa legislatura sono state presentate almeno due proposte di riforma dell'accesso alla professione forense, ma nessuna sembra essere in grado di cambiare il panorama attuale.
La prima è la n. 1237 che prevede il mantenimento dei codici commentati e l'abrogazione del reato di cui all'art. 46 c. 10 legge 247/2012, fattispecie che attualmente prevede una sanzione penale per chi comunichi le tracce dei compiti o fornisca testi relativi all'esame prima o durante le prove scritte. Un fatto abbastanza allarmante, che fa pensare a inquietanti retroscena sul passaggio delle tracce previo allo svolgimento dell'esame scritto.
La seconda è la n. 2030, che è stata ritirata pochi giorni fa. Si trattava di una proposta valida, che prevedeva la revisione delle modalità dell'esame di abilitazione previste dagli artt. 46 e seguenti della legge 247/12, mediante l'introduzione di misure premianti e di meccanismi di trasparenza, con l'obbligo di motivazione non puramente numerica e la fissazione di criteri effettivi, obiettivi ed omogenei, su scala nazionale, da seguire per la valutazione delle prove di cui all'art. 17 bis del regio decreto 37/1934, con previsione di una ulteriore sessione per le prove scritte salvaguardando l'esito favorevole delle stesse in caso di superamento, al fine di poter affrontare un'unica prova orale.
Resta da capire cosa farà il legislatore in previsione del 2 febbraio 2020, data a partire dalla quale sarà vigente l'obbligo di motivazione del voto numerico di cui all'art. 46 c. 5 della legge 247/2012, inspiegabilmente prorogato per ben sette anni e sette sessioni d'esame".
Quale sarebbe la via migliore da seguire per assicurare l'entrata agli albi forensi da parte di chi lo merita ed evitare "mercanteggiamenti" di titoli, come auspica anche il presidente del Cnf?
"C'è sicuramente bisogno di un esame obbiettivo, che prenda in considerazione le reali capacità del candidato, nel pieno rispetto dei principi di meritocrazia e trasparenza delle correzioni. Vanno però eliminati gli interessi economici alla base delle prove scritte. Altrimenti, l'accesso alla professione resterà indice di uno stato di diritto minato nelle sue basi più profonde".