di Lucia Izzo - Non è sufficiente l'uso della parola "clandestino" per far scattare una condanna per propaganda discriminatoria ai sensi della L. n. 654/1975. I giudici, infatti, devono provvedere a una essenziale ricostruzione del contesto in cui è avvenuto l'evento, poiché l'odio razziale o etnico è integrato da un sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori, e non, invece, da qualsiasi sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto riconducibile a motivazioni attinenti alla razza, alla nazionalità o alla religione.
In sostanza, la discriminazione per motivi razziali deve fondarsi proprio sulla qualità personale del soggetto e non sui suoi comportamenti.
Lo ha precisato la Corte di Cassazione, prima sezione penale, nella sentenza n. 1602/2020 (qui sotto allegata) pronunciandosi sul ricorso di due uomini dichiarati responsabili, in concorso tra loro, di avere propagandato idee fondate sull'odio razziale a mente degli articoli 110 c.p. e 3, primo comma, lettera a), L. n. 654/1975 e s.m.i. e per questo condannati alla pena di mesi sei di reclusione ciascuno.
- 1. Propaganda discriminatoria
- 2. Propaganda discriminatoria e contesto della condotta
- 3. Motivazione insufficiente
- 4. Discriminazione: non basta un sentimento di antipatia o insofferenza
Propaganda discriminatoria
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In particolare, gli imputati avevano esposto su un camion pubblicitario, riferibile al loro esercizio commerciale, posto in luogo pubblico, un manifesto pubblicitario del tipo a vela con il messaggio "clandestino uccide tre italiani a picconate - pena di morte subito!!!" raffigurante anche una ghigliottina con lama grondante sangue e, accanto alla stessa l'immagine, la testa di un uomo di colore decapitato.
Gli imputati contestano la condanna, evidenziando come il messaggio pubblicitario avesse unicamente lo scopo di richiedere il trattamento sanzionatorio della pena di morte in relazione alla gravità dei fatti commessi e non per il colore della pelle dell'imputato che, come usualmente avviene anche nella comunicazione televisiva e giornalistica, è stato indicato come "clandestino" perché effettivamente privo di un regolare permesso per permanere sul territorio dello Stato.
La difesa, dunque, ritiene trattasi di una legittima opinione non riguardante la razza dell'autore del triplice omicidio, ma che si limita a sollecitare una modifica normativa tale da consentire l'applicazione, in un caso come quello ivi descritto, della pena di morte, sicché se di odio si tratta esso riguarda indifferentemente tutti coloro che si rendono responsabili di un triplice omicidio, valutazione che attiene alla libertà di espressione dell'individuo.
Gli Ermellini ritengono fondato il ricorso nella parte in cui attacca il ragionamento dei giudici di merito che hanno qualificato alla stregua di propaganda discriminatoria l'esposizione dei richiamati manifesti pubblicitari.
Propaganda discriminatoria e contesto della condotta
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La sentenza rammenta come l'interpretazione degli elementi previsti dall'art. 3, comma primo, lett. a), della legge 654/1975 (propaganda di idee, odio razziale o etnico, discriminazione per motivi razziali) debba essere compiuta dal giudice tenendo conto del contesto in cui si colloca la singola condotta, in modo da assicurare il contemperamento dei principi di pari dignità e di non discriminazione con quello di libertà di espressione, valorizzando l'esigenza di accertare la concreta pericolosità del fatto.
Nel caso di specie, i giudici di merito hanno ravvisato la propaganda discriminatoria nella condotta degli imputati che, mediante la contrapposizione tra il clandestino (autore di un grave delitto) e gli italiani (vittime del grave reato), associata alla violenta esibizione di una ghigliottina che decapita la testa di un uomo, appunto, di colore, avrebbero additato il "clandestino di pelle nera" quale nemico in ragione delle sue origini e non per i suoi comportamenti.
Tale percorso logico giuridico viene ritenuto errato dalla Cassazione, poiché muove dal presupposto, rimasto indimostrato, secondo il quale le violente espressioni, che invocano in modo cruento e plateale l'applicazione della pena capitale, riportate nei manifesti di cui si discute, costituiscono ex se attività discriminatoria perché tale inammissibile sanzione sarebbe applicabile solo in ragione dello stato di clandestinità dell'uomo di colore accusato del triplice omicidio.
Motivazione insufficiente
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Per gli Ermellini, i giudici avrebbero dovuto provvedere alla ricostruzione della vicenda evocata dal manifesto, che costituisce l'antecedente storico e logico di quella oggetto del giudizio.
Per questo la motivazione del provvedimento impugnato viene ritenuta insufficiente nella parte in cui afferma la natura discriminatoria della condotta mediante una disarticolata evocazione del mero contenuto formale del manifesto a carattere pubblicitario, non essendosi provveduto alla ricostruzione del contesto, essenziale per comprendere il contento discriminatorio della pubblicità esposta sul camion.
Ancora, i giudici hanno omesso di considerare che "l'odio razziale o etnico è integrato da un sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori". Nel caso in esame, non si ritiene che tale idoneità sia stata in alcun modo indagata dai giudici di merito, anzi, viene di fatto presunta in base alla circostanza dell'esposizione al pubblico del manifesto pubblicitario.
Discriminazione: non basta un sentimento di antipatia o insofferenza
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La Cassazione ribadisce che non è sufficiente, per ravvisare la condotta incriminata, un qualsiasi sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto riconducibile a motivazioni eventualmente anche attinenti alla razza, alla nazionalità o alla religione, perché si deve trattare piuttosto di una condotta discriminatoria che si fonda proprio sulla qualità personale del soggetto, e non invece sui suoi comportamenti.
In conclusione, si ritiene errata l'interpretazione e l'applicazione della disposizione incriminatrice in quanto i giudici di merito hanno ravvisato la discriminazione nella circostanza che si tratta un soggetto indicato come "clandestino", senza aver in alcun modo esplorato, da un lato, la relazione ("ictu oculi" esistente e comunque fermamente proposta dalla difesa) tra il comportamento omicida posto in essere da tale individuo e l'odio manifestato nei suoi confronti dagli imputati, e, dall'altro lato, l'irregolarità dell'ingresso in Italia del soggetto che si è reso autore di quei gravi fatti.
L'accertata violazione di legge sugli elementi della fattispecie impone di procedere all'annullamento della sentenza impugnata per procedere a nuovo giudizio nel quale dovrà farsi applicazione dei richiamati principi di diritto.
Scarica pdf Cass., I pen., sent. 1602/2020