di Laura Muscolino - La Cassazione si è trovata a decidere sul ricorso proposto da uno straniero avverso la sentenza della Corte di appello di Ancona, con la quale la stessa aveva statuito in secondo grado sull'impugnazione avverso la decisione della Commissione territoriale che non riteneva sussistenti i presupposti di legge per il riconoscimento della protezione internazionale (impugnazione ai sensi dell'art. 35, d. lgs. 28 gennaio 2008, n. 25).
- Protezione internazionale: normativa applicabile
- La direttiva 2004/83/CE
- Casus decisus: i principi enunciati
- Il rigetto della domanda
Protezione internazionale: normativa applicabile
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Il d. lgs. 251/2007, "Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonchè norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta."
L'art. 2, d. lgs. 251/2007, lett. a), chiarisce che la "protezione internazionale" altro non è che il riconoscimento dello status di rifugiato o l'ammissione alla protezione sussidiaria. Le due forme di tutela sono riconosciute in presenza di requisiti che diversi: per quanto concerne lo status di rifugiato (art. 2, lett. e), esso compete al cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio dello Stato di cui ha la cittadinanza e non può a causa di tale timore o non vuole avvalersi della protezione del proprio Paese (oltre all'apolide che si trovi fuori dal territorio nel quale aveva la precedente dimora); la protezione sussidiaria (lett. g) spetta al cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine (per l'apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale), correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno, vale a dire (art. 14, d. lgs. 251/2007) la condanna a morte o all'esecuzione della pena di morte; la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale (quest'ultima era, in particolare, l'ipotesi invocata dal richiedente). L'art. 5 del d.lgs. 251/2007 puntualizza come ai fini della valutazione della domanda di protezione internazionale, i responsabili della persecuzione o del danno grave debbano essere lo Stato o i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio; qualora la minaccia provenga da soggetti non statuali, la domanda sarà suscettibile di accoglimento solo se né autorità o i soggetti che controllano il paese né le organizzazioni internazionali possono o vogliono fornire protezione.
In più, l'art. 19 del d. lgs. 286/98 individua alcune categorie vulnerabili di soggetti (e.g. minori stranieri non accompagnati, fondati motivi di ritenere che, nello Stato di provenienza, la persona rischi di essere sottoposta a tortura), nei cui confronti non può disporsi l'espulsione o il respingimento o l'estradizione, generando un catalogo comunque aperto e non standardizzato, in attuazione del disposto dell'art. 10 Cost., commi 3 e 4: "Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici"; nell'effettuare la valutazione di vulnerabilità, occorre tener conto del parametro fissato dall'art. 5, c. 6 del medesimo decreto: questo impone una specifica indagine sulla condizione peculiare del soggetto singolo e della sua vita privata e familiare piuttosto che -in linea del tutto generale ed astratta- quella del suo Paese d'origine (Cass. 03/04/2019 n. 9304); la valutazione avrà carattere globale, andando a comparare la situazione goduta dal richiedente in Italia con quella sofferta e che nuovamente andrebbe a patire nel paese d'origine, a seguito del rimpatrio.
La direttiva 2004/83/CE
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La direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, all'art. 8, par. 1, statuisce: "Nell'ambito dell'esame della domanda di protezione internazionale, gli Stati membri possono stabilire che il richiedente non necessita di protezione internazionale se in una parte del territorio del paese d'origine egli non abbia fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire danni gravi e se è ragionevole attendere dal richiedente che si stabilisca in quella parte del paese". La disposizione non è stata trasfusa nella normativa italiana; a ben vedere, essa si limitava a prevedere una facoltà, di cui il Legislatore nostrano si era avvalso, vale a dire quella di consentire la protezione internazionale altresì nel caso in cui lo straniero, nel proprio paese d'origine, avrebbe potuto, secondo criteri di ragionevolezza, trasferirsi in altra zona priva di pericoli. In ripetute occasioni (16/02/2012, n. 2294; Id., 9/4/2014 n. 8399; Id., 27/10/2015 n. 21903), la Corte aveva fornito delucidazioni in materia, illustrando come la sussistenza della possibilità di muoversi in altra regione o area rispetto a quella di provenienza e quindi la settorialità del rischio nello Stato d'origine del richiedente asilo non costituiva motivo di rigetto della domanda di protezione.
Casus decisus: i principi enunciati
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Il ricorrente, cittadino nigeriano dell'Edo State, dinanzi alla Commissione territoriale aveva così esposto i fatti: egli aveva abbandonato il proprio Paese perché, dopo l'uccisione dei propri genitori a mano degli anziani del villaggio, di fede animista, egli temeva di fare la medesima fine in ragione della conversione alla religione cristiana della propria famiglia.
Secondo la Corte, il richiedente la protezione internazionale è normalmente tenuto ad allegare e fornire prova dei fatti costitutivi del suo diritto, ma può essere esonerato da quest'ultimo onere ove la dimostrazione sia per lui impossibile, purché abbia tempestivamente ed esaustivamente proposto e circostanziato la domanda, ne abbia compiutamente esposto i fatti costitutivi, e purché il vaglio di credibilità soggettiva delle dichiarazioni abbia esito positivo. Ove le dichiarazioni del richiedente appaiano, in relazione ai criteri di legge, del tutto inattendibili, il Giudice del merito non sarà tenuto ad alcun approfondimento istruttorio.
E' pur vero che, in difetto di prova, l'art. 3, d. lgs. 251/07 stabilisce che la veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere valutata alla stregua di alcuni canoni appositamente individuati:
a) il compimento di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda;
b) la sottoposizione di tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e di una idonea motivazione dell'eventuale mancanza di altri elementi significativi;
c) le dichiarazioni del richiedente debbono essere coerenti e plausibili e non essere in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone;
d) la domanda di protezione internazionale deve essere presentata il prima possibile, a meno che il richiedente non dimostri un giustificato motivo per averla ritardata;
e) la generale attendibilità del richiedente, alla luce dei riscontri effettuati.
Il Giudice del merito, dunque, sarà effettivamente tenuto ad assumere informazioni integrative sulle condizioni generali dello Stato di provenienza, ma solo quando il giudizio di veridicità alla stregua degli indici di genuinità intrinseca sia positivo (principio già enunciato dalle pronunce Cass. 24/9/2012, n. 16202 del 2012; Cass. 10/5/2011, n. 10202); ciò con riferimento alle ipotesi di cui all'art. 14, lettere a e b, d. lgs. 251/2007. Il dovere ufficioso di realizzare la cooperazione istruttoria, a prescindere dall'attendibilità della narrazione del richiedente e pertanto anche ove questa risulti non plausibile, permane ove venga in considerazione l'ipotesi di cui all'art. 14, lett. c, d. lgs 251/2007 ("la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale").
Inoltre, la valutazione inerente alla verosimiglianza e credibilità delle dichiarazioni del richiedente, sulla base della loro plausibilità e coerenza, integra un apprezzamento di fatto rimesso al Giudice di merito, il quale andrà a scrutinare la situazione individuale e le circostanze personali del richiedente (in particolare la condizione sociale, il sesso, l'età), allo scopo di valutare se gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave, ai sensi dell'art. 3, c. 5, lett. c), d. lgs. 251/2007 (c.d. vaglio di credibilità soggettiva).
Il rigetto della domanda
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Nel caso di specie, la Corte del merito aveva ritenuto incongruo e generico il racconto del richiedente, nel rilievo che nella zona di provenienza dello straniero, la religione cristiana è quella prevalente e che implausibile, come tale, sarebbe stato l'accanimento contro la famiglia dell'istante e l'impossibilità dello stesso di richiedere protezione alle autorità statali nigeriane (l'Edo si trova nella Nigeria meridionale).
La Cassazione (con l'ordinanza n. 6926 dell'11 marzo 2020) reputa insussistente la condizione prevista dalla lettera c), art. 14, d. lgs. 251/2007, nonostante la prova fornita, tramite il ricorso a fonti accreditate, di situazioni di violenza indiscriminata nel Delta State (anch'esso situato nel sud della Federazione nigeriana); precisa a questo proposito la Corte che non è possibile ottenere accesso alla protezione se si proviene da una regione o area interna del Paese di origine sicura, per il solo fatto che vi siano nello stesso Paese anche altre aree o regioni invece insicure. Per le stesse ragioni, il ricorrente non poteva nemmeno considerarsi in situazione di vulnerabilità ai sensi dell'art. 19, d. lgs. 286/98, nell'interpretazione precedentemente esposta.
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