di Annamaria Villafrate - La Cassazione con la sentenza n. 10422/2020 (sotto allegata) dichiara inammissibile il ricorso presentato da un padre, imputato per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Il fatto che per un periodo abbia percepito una retribuzione di 1000 euro, che abbia impiegato le somme per pagare dei debiti pregressi e che ai bisogni dei bambini abbiano provveduto la madre e i nonni non fa venire meno la sua responsabilità penale. Occorre dimostrare un'impossibilità oggettiva, persistente e incolpevole. Il reato infatti deve considerarsi integrato solo per il fatto che le vittime del reato sono dei minori, e in quanto tali impossibilitati a procurarsi i mezzi necessari per mantenersi autonomamente.
- Violazione degli obblighi di assistenza familiare
- Il ricorso in Cassazione
- Il reato è integrato solo per il fatto che le vittime siano dei minori
Violazione degli obblighi di assistenza familiare
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La Corte d'Appello conferma la pronuncia di primo grado nei confronti dell'imputato, accusato di aver commesso il reato previsto dall'art. 570 comma 2 c.p. e condannato alla pena di due mesi di reclusione e 220 euro di multa, con il beneficio della sospensione della pena.
All'imputato è stato contestato di aver fatto mancare i mezzi sussistenza ai figli, in favore dei quali il Tribunale dei minori aveva disposto un assegno mensile di 250 euro e il pagamento delle spese mediche e scolastiche nella misura del 50% a carico di ciascun genitore.
Dalle prove è risultato che l'imputato, contravvenendo alla sentenza del tribunale, provvedeva a versare solo due assegni di 350 euro ciascuno. A suo discolpa, in sede d'interrogatorio, l'imputato dichiarava di essere rimasto senza lavoro e di aver percepito dal 2008 al 2010 solo un assegno mensile di 1000 euro, con cui provvedeva a pagare l'affitto, le spese correnti, le tasse e i debiti con la banca.
La Corte d'Appello però, fondando la sua decisione sulle dichiarazioni della ex moglie e sulle stesse ammissioni dell'imputato, ha chiarito che, nel momento in cui i soggetti passivi del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, sono dei minori lo stato di bisogno è in re ipsa, in quanto soggetti incapaci di procurarsi un reddito proprio e di mantenersi. L'obbligo di mantenimento inoltre non viene meno solo per il fatto che ai bisogni dei bambini vi abbia provveduto la ex moglie e i nonni. Per la Corte inoltre l'imputato non si è mai trovato in uno stato di indigenza tale da impedirgli in assoluto di adempiere ai suoi doveri genitoriali.
Il ricorso in Cassazione
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L'imputato decide di ricorrere in sede di legittimità lamentando il travisamento della prova relativa alla sua situazione di indigenza, avendo prodotto documenti da cui risultavano i debiti bancari e societari da cui potevano desumersi le ristrettezze in cui versava e da cui emergevano che le spese sostenute dallo riguardavano l'attività lavorativa di artigiano, non spese personali.
L'imputato infatti, sapendo che ai figli stavano provvedendo la moglie e i nonni, ha impiegato le somme per estinguere i debiti contratti nel periodo in cui conviveva con la ex. Con il secondo invece eccepisce la prescrizione dei fatti anteriori al 2009, maturata prima del giudizio d'appello.
Il reato è integrato solo per il fatto che le vittime siano dei minori
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La Corte di Cassazione con la sentenza n. 10422/2020 dichiara il ricorso inammissibile perché richiede in sostanza un riesame dei fatti, non consentito in sede di legittimità. Le doglianze inoltre contrastano con la giurisprudenza della Corte che ritiene il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare integrato quando commesso in danno di minori incapaci di provvedere ai propri bisogni, perché impossibilitati a percepire un reddito e a mantenersi da soli. Non rileva che la madre e i nonni si siano occupati dei bambini. Fatti che, valutati insieme alle addotte difficoltà economiche, non fanno comunque venire meno l'elemento psicologico del reato e non scriminano la condotta del padre.
Solo se l'imputato fosse riuscito a dimostrare, attraverso prove rigorose, un'impossibilità oggettiva, persistente e incolpevole ad adempiere all'obbligo imposto, si sarebbe potuta escludere la sua responsabilità penale.
Nessun travisamento di prova è quindi imputabile alla corte d'Appello. La sentenza impugnata ha infatti puntualmente e approfonditamente valutato tutte le circostanze allegate dal ricorrente.
Respinto anche il secondo motivo sulla prescrizione dei fatti commessi fino ad aprile 2009, considerato che il reato di cui all'art 570 c.p. è permanente. La prescrizione di conseguenza opera solo al cessare della permanenza, che si realizza con l'adempimento dell'obbligo a cui si è venuti meno o con la data della deliberazione della sentenza di primo grado, se dal giudizio emerge che la violazione si è protratta dopo il decreto di citazione a giudizio. Corretta quindi la sentenza nel punto in cui il giudice precisa che la continuità della condotta elusiva impedisce ogni pronuncia di estinzione del reato per prescrizione, nel rispetto di quanto sancito dalla giurisprudenza di legittimità.
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