di Paolo M. Storani - No, una volta tanto nel testo che segue non si affronterà il tema della ricaduta esistenziale del Coronavirus sulla qualità della vita degli individui del pianeta, né, caro Luigi Viola, dell'art. 12 delle Preleggi che enuncia tutti i criteri dell'ermeneutica legislativa, primo tra essi quello dell'interpretazione letterale, il principio «in claris non fit interpretatio», né tanto meno degli strumenti esegetici sussidiari dell'interpretazione estensiva; proprio no.
Si parlerà di qualche storiella minima, minima per modo di dire.
"Frammenti", puntata n. 14, contiene le Short stories di Studio Cataldi.
- Dove andando stiamo? Capriola sintattica al tempo del Coronavirus in compagnia di Paolo Rumiz
- Insieme a Scott Fitzgerald e Roberto Tartaglia
- La storia americana di Seymour Levov, con Philip Roth e Fabio Stassi
1. Dove andando stiamo? La capriola sintattica al tempo del Coronavirus in compagnia di Paolo Rumiz
In origine l'avvio della telefonata era: «Ciao, come stai?»; con l'avvento del telefonino, poi blackberry, ora smartphone, si passa al «Ciao, dove sei?».
Ora non occorre più chiedere dove sia la persona che stai chiamando al telefono: sempre nello stesso posto, da circa un mese, a casa.
Spiacente, però, qui non si tratterà di COVID-19, neanche un po'.
Anche se di questi tempi è preferibile accantonare l'idea stessa del viaggio, si può sempre farlo con la fantasia e con il sogno.
«I tedeschi la chiamano Reisefieber, febbre da viaggio».
Lo spiega Paolo Rumiz in «E' Oriente», Feltrinelli, 1^ ed.2003.
«La riconosco subito: arriva a notte fonda, con vampate di calore, ansia e acciacchi vari… accanto al comodino tengo sempre pile di atlanti, carte, guide, romanzi di viaggio, diari di bordo, relazioni con fotografie di paesi lontani, storie di antichi pellegrinaggi… talvolta sono così tanti che formano un muretto».
Mi piace molto come Rumiz sa creare immagini con il solo dono della parola.
Del resto, come pone in risalto Fabio Stassi, autore sopraffino con cui talvolta sono in contatto, «la lettura è qualcosa che non può avere a che fare con la costrizione, perché ha a che fare solo con la libertà. E' un suo esercizio e non si può imporre. Si può soltanto sperare di contagiarla, come un'epidemia» («Holden, Lolita, Zivago e gli altri», ed. Minimum Fax, 2010).
Prosegue Paolo Rumiz a proposito del muro di libri: «al mattino devo scavalcarlo per alzarmi. Ai piedi del letto una piccola valigia, con l'indispensabile per le partenze improvvise, frequenti nel mio mestiere… esci di casa ed è fatta».
Ecco, torniamo al problema: non si può uscire di casa per il distanziamento delle persone.
2. Insieme a Scott Fitzgerald e a Roberto Tartaglia
«L'evitare i giudizi è fonte di speranza infinita» è una frase di Francis Scott Fitzgerald che non si adatta troppo a chi di mestiere, anzi di professione, fa l'avvocato, ma racchiude una grande verità.
Me lo ha ricordato involontariamente (e tra un attimo spiegherò il perché ed il come) il consulente della Commissione Antimafia Roberto Tartaglia, figura di giovane magistrato che a me piace tanto.
Un punto di riferimento limpido anche se anagraficamente potrebbe essere mio figlio.
«Negli anni più vulnerabili della giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente.
'Quando ti vien voglia di criticare qualcuno' mi disse 'ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu'.
Il «padre» non è quello del Dott. Tartaglia e neppure il mio (anche se avrebbe potuto anche essere) ma è del personaggio dell'incipit del «Grande Gatsby».
'Non disse altro, ma eravamo sempre stati insolitamente comunicativi nonostante il nostro riserbo, e capii che voleva dire molto più di questo. Perciò ho la tendenza a evitare ogni giudizio, una abitudine che oltre a rivelarmi molti caratteri strani mi ha anche reso vittima di non pochi scocciatori inveterati».
La penna della traduttrice è formidabile; non a caso si tratta della più acclamata americanista: Fernanda Pivano scoprì Fitzgerald subito dopo la guerra mentre era in compagnia di Cesare Pavese, in un negozio di Torino, Via Po per la precisione.
Stava frugando tra alcuni volumi lasciati dagli Alleati; si imbatté nel «Portable Fitzgerald» curato per Viking Press da Dorothy Parker nel 1945.
Fernanda Pivano, nel corso della sua carriera, tradusse e ritradusse, per puro piacere, l'opera che forse l'aveva più appassionata, che parla del personaggio Jay Gatsby, eroe tragico incastonato nel sogno americano.
Vi offro la risposta che vi dovevo sul Dott. Tartaglia: un bel giorno di qualche tempo fa, per la precisione il 18 dicembre 2019, vengo calamitato dall'incipit del «Grande Gatsby» in un post sui social di Roberto Tartaglia, che solitamente scorgo passeggiare di sera per le vie del centro di Roma, sobriamente elegante fuori e dentro.
Il post, però, prima di passare la parola all'incipit di Scott Fitzgerald, cominciava così: "Diciamo la verità: la cosa più bella del viaggio è l'incontro con persone e storie diverse e ogni profilo di differenza scovato diventa un piccolo tesoro di conoscenza acquisito".
Ecco dove ho tratto lo spunto per questo frammento.
3. La storia americana di Seymour Levov, con Philip Roth e Fabio Stassi
E' del 1997 «Pastorale americana» e a mio sommesso parere si tratta del capolavoro di quello che, prima della sua recente scomparsa, era il più grande scrittore vivente: Philip Roth.
Lo stile di scrittura di Roth è divino.
Ma gli sta benissimo in scia Fabio Stassi, la cui conoscenza debbo a Gianni Mura, che se n'è andato soltanto il 21 marzo 2020 in un orribile giorno di inizio primavera, in un ospedale di Senigallia. Ironia della sorte, non lontano da casa mia. Paziente no-COVID, cuore.
Accadde un bel giorno che Emergency di Gino Strada, «un personaggio a cui è difficile dire di no» («Tanti amori», ed. Feltrinelli, 2013, pag. 208), chiamò Gianni Mura a dirigere un nuovo mensile: «Accettando la sua proposta mi era sembrato di rendermi utile, mettendomi in gioco e a disposizione delle loro necessità». Poi, le cose non andarono per il meglio e Gianni si amareggiò per la prematura chiusura disposta dalla figlia di Strada.
Non ricordo se proprio nel primo numero del nuovo magazine Mura pubblicò un racconto inedito di Fabio Stassi, lo scrittore… ferroviario (un giorno, se vi va, vi racconto la sua storia di pendolarismo «con la collina di Spoon River fuori dal finestrino e l'universale commedia umana di una popolazione immaginaria a riempire lo scompartimento») cui voglio un mondo di bene.
Così, grazie al talento cristallino e al gran fiuto di Gianni Mura, conobbi Stassi; portentoso come Fabio descriva in chiave autobiografica «Lo Svedese», il protagonista del romanzone di Philip Roth: «Ero di pelle così chiara che mi chiamavano lo Svedese, nonostante in realtà fossi ebreo. Alto, biondo, atletico, buono fino al midollo, invulnerabile come un dio. Un predestinato al sogno americano. Uno che non faceva mai cose sbagliate, che eccelleva in tutto: nello sport, nello studio, nell'impresa, che non cedeva all'ira».
Se non avete mai letto «Pastorale americana» di Roth o «Holden, Lolita, Zivago e gli altri», ed. Minimum Fax, 2010, dalla cui pag. 305 ho tratto il passo che precede, allora è ora di colmare la lacuna.