di Annamaria Villafrate - La Cassazione n. 11915/2020 (sotto allegata) chiarisce che nel momento in cui un imputato è stato condannato per il reato di stalking condominiale con sentenza passata in giudicato, se poi commette nuove condotte in grado di integrare lo stesso reato, non può esserci collegamento tra i fatti commessi prima e dopo l'intervenuto giudicato. In caso contrario il soggetto verrebbe giudicato due volte, in palese violazione del principio del ne bis in idem.
Accusa di stalking condominiale
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La Corte d'Appello riforma la sentenza di assoluzione di primo grado emessa nei confronti dell'imputato, accusato di stalking condominiale in danno di diversi condomini residenti nel suo stesso stabile. Al condomino sono state contestate una serie di molestie, minacce e ingiurie dal 4 settembre 2013 in poi. Per il giudice dell'impugnazione adito dal Procuratore Generale, l'imputato è responsabile per le condotte commesse dopo il 26 giungo 2014, ritenendo però sussistente la continuazione aumenta la pena della reclusione inflitta con la precedente sentenza di ulteriori 15 giorni.
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Mancata rinnovazione delle prove
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L'imputato ricorre in sede di legittimità sollevando sei motivi di ricorso.
- Con il primo motivo contesta la violazione dell'art 603 comma 3 bis c.p.p. La Corte ha ribaltato la sentenza di assoluzione senza procedere alla rinnovazione delle prove dichiarative, come imposto dalla norma.
- Con il secondo fa presente che la Corte d'Appello non ha considerato l'art. 593 bis c.p.p retroattivo, dichiarando ammissibile il ricorso del Procuratore anche se l'impugnazione è stata avanzata prima del 6 marzo 2018, data di entrata in vigore di detta norma.
- Con il terzo contesta l'applicazione del principio del ne bis in idem da parte della Corte d'Appello per i fatti anteriori al 26 giungo 2014 anche se dalle deposizioni è emerso che dopo tale data l'imputato non commesso alcun reato e che in relazione ad essi nessuno ha presentato querela.
- Con il quarto lamenta una carenza motivazionale in relazione all'art. 649 c.p.p che sancisce il divieto di un nuovo procedimento penale per lo stesso fatto e l'assenza di querela in ordine ai fatti successivi al 26 giugno 2014. La Corte non precisa infatti quali condotte successive a tale data sono addebitabili all'imputato.
- Con il quinto si duole per la mancata motivazione sulle ragioni per le quali la Corte ha ritenuto di non poter accogliere le censure sollevate dall'imputato sull'elemento oggettivo del reato. Il ricorrente non comprende quali fatti, a parte un episodio del 19 dicembre 2013, possono integrare il reato, visto che quelli anteriori al 26 giugno 2014 sono coperti da giudicato e non possono essere giudicati una seconda volta.
- Con il sesto motivo lamenta difetto di motivazione relativo al rigetto dell'appello incidentale sempre sull'elemento oggettivo del reato perché solo l'episodio del 19 dicembre 2013 è stato commesso entro i sei mesi della querela.
Condotte persecutorie e giudicato
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La Cassazione con la sentenza n. 11915/2020 dichiara il ricorso fondato, dispone l'annullamento del provvedimento impugnato e rinvia ad una nuova sezione della Corte d'Appello.
Prima di passare al cuore della motivazione la Cassazione esamina il secondo motivo del ricorso, perché il suo accoglimento renderebbe superfluo esaminare gli altri, anche se, conclude per il suo rigetto. L'art. 593 bis c.p.p, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa dell'imputato, non è norma retroattiva, per cui l'appello del Procuratore Generale deve ritenersi ammissibile e la sua applicazione non crea disparità di trattamento rispetto agli imputati giudicati prima e dopo la sua entrata in vigore il 6 marzo 2018.
Parimenti infondato il primo motivo del ricorso. L'obbligo di rinnovare l'istruzione dibattimentale se il giudice dell'impugnazione ribalta la sentenza assolutoria del Tribunale, sussiste se effettua una diversa valutazione della fattispecie concreta in base al quadro probatorio complessivo e non se valuta diversamente l'attendibilità di una prova dichiarativa. La Corte comunque, nel caso di specie, è pervenuta a un giudizio di penale responsabilità dell'imputato valutando in modo invariato le prove così come i fatti accertati in base alle stesse.
Ciò che ha differenziato la valutazione della Corte rispetto al Tribunale riguarda il dolo della condotta richiesto dall'art. 612 bis c.p. Il giudice di secondo grado ha ritenuto che i fatti commessi erano idonei a configurare quel "perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita" previsto dalla norma.
Fondati anche il terzo e quarto motivo, in cui si lamenta vizio di motivazione in relazione alla sussistenza della querela, così come il sesto, in cui ci si duole per la mancanza di motivazione sull'elemento oggettivo del reato.
La Corte d'appello ha dichiarato non doversi procedere per i fatti anteriori al 26 giugno 2014 perché sugli stessi si era già pronunciata sentenza passata in giudicato. Questa parte di sentenza della Corte d'appello non è stata impugnata dal Procuratore Generale ed essendosi formato il giudicato non può essere trattata nel giudizio di Cassazione. Vero però che dalla sentenza che ha giudicato l'imputato per i fatti commessi fino al 26 giugno 2014 discendono conseguenze importanti anche per verificare la sussistenza del diverso reato per il quale si procede in questo giudizio.
Come affermato da precedenti pronunce di Cassazione, in virtù del principio del ne bis in idem, se un soggetto è stato condannato per il delitto di atti persecutori, gli atti successivi a quelli per i quali è intervenuta sentenza di condanna non possono più essere collegati a quelli anteriori, ma devono dare vita a una nuova serie di atti in grado di integrare uno degli eventi previsti dall'art. 612 bis c.p. "Diversamente ragionando, laddove per integrare gli elementi costitutivi del secondo reato debba farsi ricorso ad elementi del primo reato già giudicato, l'agente verrebbe condannato due volte per il medesimo fatto, in violazione dell'art. 649 c.p.p."
Nel caso di specie dalle due sentenze di merito non si comprende quali fatti successivi al 26 giugno 2014 possono essere ricondotti al reato di atti persecutori, perché si afferma molto genericamente che l'imputato ha tenuto condotte illecite dopo il 26 giugno 2014, ma non si chiarisce chi li ha subiti e in che cosa consistono.
Come già affermato da precedenti sentenze "il carattere del delitto di atti persecutori quale reato abituale improprio rileva anche ai fini della procedibilità, con la conseguenza che nell'ipotesi in cui la reiterazione concerna anche condotte poste in essere dopo la proposizione della querela, la condizione di procedibilità si estende a queste ultime, le quali, unitariamente considerate con le precedenti, integrano l'elemento oggettivo del reato."
Questo principio richiede la natura unitaria del reato anche di fronte a più atti che integrano la condotta. In questo caso però è chiaro che le condotte su cui si è formato il giudicato non possono essere collegate a quelle successive e viceversa, per cui quelle posteriori al 26 giugno 2014 devono essere considerate autonomamente. La Corte inoltre non ha chiarito se in riferimento alle condotte contestate dopo la data del 26 giugno 2014 qualcuno avesse sporto querela, per cui la motivazione è carente anche per quanto riguarda la condizione di procedibilità.
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