- Sepoltura dei feti: nel cimitero croci col nome delle madri
- La normativa italiana
- L'opera di associazioni pro-life
- Garante della Privacy: avviata un'istruttoria
- La class action
Sepoltura dei feti: nel cimitero croci col nome delle madri
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Una distesa di croci bianche al cimitero Flaminio di Roma e su ognuna di esse un cartellino riportante un nome e un cognome. Non di chi, sotto quella croce, è sepolto, bensì delle donne "responsabili" di aver abortito, che sia per interruzione volontaria di gravidanza o a seguito di aborto terapeutico. Un'immagine a dir poco sconcertante che ha riacceso le luci su quella che sembrerebbe essere una vera e propria prassi in molte Regioni italiane, come dimostrano gli ultimi casi segnalati anche a Brescia.
Questi "cimiteri dei bambini mai nati", infatti, sarebbero autorizzati dai Comuni e gestiti da associazioni pro life con fondi di donatori, ma in tutto questo è il ruolo delle donne ad essere messo in secondo piano: molte di queste, reduci da un'interruzione di gravidanza, potrebbero non essere state adeguatamente informate circa la sepoltura dei propri feti, né tanto meno della possibilità che i loro nomi potessero arrivare a figurare su queste "tombe".
Ed è proprio quanto avvenuto a Roma, dove una di queste donne ha deciso coraggiosamente di affidare a un post di denuncia su Facebook lo sdegno e lo choc a seguito del rinvenimento del proprio nome sulla "tomba" del proprio figlio nato morto e seppellito a sua insaputa a seguito di un'interruzione terapeutica di gravidanza.
Lei, infatti, aveva scelto di rinunciare alle esequie e alla sepoltura del feto e, nonostante ciò, mesi dopo ha scoperto che vi aveva provveduto un'associazione di volontariato, seppellendo il feto in un'area ad hoc del cimitero Flaminio e scrivendo in stampatello su una targhetta, posta sulla "tomba", il nome della madre.
Il suo racconto affidato ai social, con dovizia di particolari e accompagnato da una potente immagine della croce bianca con su il proprio nome, ha scatenato numerose reazioni, interrogativi e soprattutto dubbi quanto al "perimetro di legalità" all'interno del quale questa pratica dovrebbe inserirsi. Di certo non sembrerebbe affatto un trattamento rispettoso della normativa in materia di privacy.
La normativa italiana
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Il punto di partenza per approfondire i profili legali della vicenda è indubbiamente quello della normativa a essa sottesa che, tuttavia, appare particolarmente "nebulosa" e presenta non poche criticità e punti deboli in quanto attuata in maniera disomogenea nelle diverse regioni.
In assenza di regolamenti, normative e prassi vigenti volti a delineare un quadro organico per il trattamento dei feti e dei bambini mai nati, questo tipo di sepoltura è disciplinata dai commi 2, 3 e 4 dell'art. 7 del d.P.R. 285/90 (Regolamento Nazionale di Polizia Mortuaria).
I bambini sono considerati "nati morti" qualora abbiano superato le 28 settimane di gestazione al momento del parto con conseguente diritto alla sepoltura seguendo la normale procedura. Il problema, invece, sorge per quanto riguarda quelli che il d.P.R. definisce come "prodotti abortivi".
In particolare, quelli di presunta età di gestazione dalle 20 alle 28 settimane complete e i feti che abbiano presumibilmente compiuto 28 settimane di età intrauterina, vengono sepolti su richiesta dei familiari o, comunque, su disposizione della ASL. In tal caso, i permessi di trasporto e di seppellimento sono rilasciati dall'unità sanitaria locale.
Anche i "prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle 20 settimane" possono essere sepolti in cimitero, con la stessa procedura, a richiesta dei genitori. In assenza di questa richiesta, invece, vengono considerati rifiuti speciali ospedalieri (perché non riconoscibili) e come tali trattati dalle ASL competenti.
In questi ultimi due casi, la normativa soggiunge che la domanda di seppellimento andrà presentata all'unità sanitaria locale dai parenti o chi per essi "entro 24 ore dall'espulsione od estrazione del feto", accompagnata da certificato medico che indichi la presunta età di gestazione ed il peso del feto.
L'opera di associazioni pro-life
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Pertanto, indipendentemente dall'età gestazionale, il regolamento rende sempre possibile la sepoltura, garantendo alle famiglie una libertà di scelta che, come dimostrano i recenti casi di cronaca, non appare sempre tutelata qualora si decida di non procedere in tal senso.
Nelle zone grigie lasciate dalla normativa si innestano regolamenti di Regioni e Amministrazioni comunali e accordi con ospedali che coinvolgono, in particolare, l'operato di associazioni pro-life che provvedono alle sepolture e ai riti di accompagnamento dei feti, sovente all'insaputa delle donne che hanno abortito. In pratica, queste associazioni dalla ben chiara ideologia, sottoscrivono protocolli d'intesa con aziende ospedaliere e Comuni in relazione ai "prodotti abortivi" non reclamati, così da essere autorizzate a provvedere, a proprie spese, alla loro sepoltura e allo smaltimento.
Per quanto riguarda il disporre del "prodotto abortivo", le associazioni si difendono sottolineando di agire nella piena legalità, in particolare facendo leva sull'assenza di esplicite richieste di sepoltura, in quanto esse si fanno avanti solo in mancanza di disposizioni e richieste da parte dei familiari. Le famiglie, tuttavia, ben potrebbero aver volontariamente deciso di non procedere alla sepoltura, oppure non conoscere la normativa, o essere state solo parzialmente informate e dunque non aver presentato domanda in tempo (ovvero superate le 24 ore richieste dalla legge).
Tra l'altro, difficilmente nei moduli del consenso informato si parla di cosa accade dopo l'Ivg, dunque è plausibile che le informazioni vengano date a voce o addirittura si rimanga del tutto all'oscuro. Nel recente caso del Cimitero Flaminio, l'interessata aveva chiaramente deciso di non procedere alla sepoltura, che però è avvenuta ugualmente, con tanto di suo "nome e cognome".
Garante della Privacy: avviata un'istruttoria
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A seguito del recente post virale su Facebook, che ha scoperchiato il vaso di Pandora e riportato a galla la questione, sono partite numerose iniziative nelle sedi deputate, in quanto tale pratica, scrivere il nome e cognome della donna sulla tomba, urterebbe sensibilmente con la legge sulla privacy trattandosi di una particolare categoria di dati personali.
La norma di riferimento, nel dettaglio, è l'art. 9 del Regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali il quale espressamente vieta di trattare "dati personali che rivelino l'origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l'appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all'orientamento sessuale della persona".
Per quanto riguarda la "dolorosissima vicenda del feto sepolto con il nome della mamma", il Garante per la protezione dei dati personali ha deciso di aprire un'istruttoria, come si legge in un comunicato, "per fare luce su quanto accaduto e sulla conformità dei comportamenti, adottati dai soggetti pubblici coinvolti, con la disciplina in materia di privacy".
Nel frattempo, si sono messe in moto anche le istituzioni. Sono infatti state presentate due interrogazioni, una alla Regione Lazio e l'altra al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, su iniziativa della deputata di Liberi e Eguali Rossella Muroni e della consigliera regionale Marta Bonafoni e che hanno raccolto l'approvazione di molti parlamentari.
Ancora, Alessandro Capriccioli e Marta Bonafoni, capogruppo di +Europa Radicali e Lista Civica Zingaretti al Consiglio regionale del Lazio hanno depositato una proposta di legge regionale per disciplinare le modalità di trasporto e sepoltura dei feti abortiti affinché l'eventuale sepoltura possa avvenire "solo previo consenso e con modalità indicate dalla madre".
La class action
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Si allunga, intanto, la lista di donne che, a seguito del post pubblicato su Facebook, hanno chiesto di verificare la presenza del loro nome in quel campo. E molte di loro, in effetti, hanno appurato di essere coinvolte, a loro insaputa. Per questo l'ufficio legale di "Differenza Donna" in poco tempo ha raccolto i nomi di decine di persone che hanno scoperto di essere state destinatarie di questa pratica e ha manifestato l'intenzione di procedere a una class action.
Nel frattempo, anche la Procura valuta l'apertura di un fascicolo per verificare la sussistenza di eventuali violazioni della privacy, o addirittura di comportamenti che possano sfociare nella violenza privata. Consapevoli dell'estrema delicatezza della materia, in cui si intrecciano strettamente i temi della libertà personale e della privacy, non resta dunque che attendere successivi sviluppi.
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