Reato di violenza privata
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Commette reato di violenza privata l'avvocato che impedisce al collega di entrare in studio cambiando la serratura e ostacolandone l'ingresso. È quanto affermato dalla quinta sezione penale della Cassazione con sentenza n. 15633/2020.
La vicenda
Nella vicenda portata davanti alla S.C., un avvocato imputato dei reati di cui agli artt. 392 e 610 c.p. per avere impedito, con l'arbitraria sostituzione della serratura e sbarrando l'ingresso con il proprio corpo, al collega di accedere all'appartamento adibito a studio legale associato e di ritirare materiale di lavoro e pratiche di studio, veniva assolto in appello "perché il fatto non costituisce reato".
Per i giudici di merito difettava, nel caso di specie, l'elemento oggettivo del reato di violenza privata, dal momento che lo studio nel quale il legale aveva cercato di entrare era quello in cui, "per mera cortesia", l'avvocato proprietario lo aveva ospitato, con l'intesa che si trattava di una sistemazione temporanea e non era stata provata l'esistenza di una associazione professionale (svolgendo gli stessi attività autonoma quanto alla trattazione delle pratiche ed essendo irrilevante che i professionisti si fossero ripartiti i costi di ristrutturazione del locale).
Il ricorso in Cassazione
Il collega, cacciato in malo modo, però non ci sta e adisce il Palazzaccio ritenendo incomprensibile il percorso argomentativo con cui la corte territoriale ha escluso la sussistenza del reato di violenza privata, ricordando altresì di essere riuscito a riacquistare la disponibilità dei propri fascicoli professionali, solo dopo avere richiesto l'intervento dell'autorità giudiziaria.
Gli Ermellini gli danno ragione.
Quando è integrato il reato di violenza privata
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Innanzitutto premettono da piazza Cavour, "l'elemento della violenza nel reato di cui all'art. 610 cod. pen. (ma analoghe considerazioni possono svilupparsi anche per il reato di ragion fattasi) si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza 'impropria', che si attua attraverso l'uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione" (v., tra le altre, Cass. n. 4284/2015).
La decisione
Ora, nel caso di specie, rileva il collegio, le considerazioni della corte sono contraddittorie e prive di concludenza, giacchè affermano l'esistenza di una sistemazione temporanea del legale, pur essendo dimostrata persino l'esistenza di una targa all'esterno del palazzo col suo nome, nonché la presenza di arredi che confermano la tesi di un rapporto stabile con i locali.
Ad essere irrilevante, invece, per la S.C., è "l'esistenza o meno di una associazione professionale o di un rapporto locatizio diretto con il proprietario dell'immobile o, ancora, di una situazione qualificabile in termini di possesso, al fine dell'esercizio delle azioni civilistiche poste a protezione" del legale cui è stato impedito l'accesso.
È chiaro infatti che, a fronte di uno svolgimento dell'attività professionale dello stesso nei locali, la condotta del "dominus" si è "tradotta in un impedimento che ha costretto il ricorrente a tollerare di astenersi dall'avere accesso agli strumenti con i quali esercitava la propria professione".
Del tutto incomprensibile è poi, ritengono i giudici, il cenno alla rilevanza della condotta dell'avvocato assolto, quanto alla possibilità per il legale impedito di ritirare i fascicoli e i beni personali, in cui la Corte d'appello, invece, di esaminare fatti e prove "si impegna in una polemica contro il capo di imputazione che avrebbe realizzato una intrusione nell'iter logico della decisione".
Per cui, alla luce di tali rilievi, la Corte annulla la sentenza impugnata ma vista l'intervenuta prescrizione dei reati, rinvia per nuovo esame al giudice civile competente.
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