- Licenziare per un "mi piace" viola i diritti umani
- Dipendente pubblica perde il posto per un "mi piace" su Facebook
- Ricorso alla CEDU per violazione della libertà di espressione
- Licenziamento sproporzionato rispetto all'accaduto
Licenziare per un "mi piace" viola i diritti umani
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Viola la Convenzione europea dei diritti dell'uomo per contrarietà all'art. 10 chi licenzia una dipendente solo perché ha messo "mi piace" su un post pubblicato su Facebook. Questa la decisione della Corte di Strasburgo contenuta nella sentenza del 15 giugno sul ricorso n. 35786/19 (sotto allegata in lingua francese).
Le autorità nazionali non possono irrogare il licenziamento solo perché un post critica le autorità pubbliche, inoltre, nel valutare quale sanzione irrogare non si può non tenere conto della differenza che intercorre tra scrivere un post e condividerlo e mettere solo un "mi piace", soprattutto se il profilo in cui è pubblicato è poco popolare.
Dipendente pubblica perde il posto per un "mi piace" su Facebook
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Nei confronti di una dipendente del Ministero dell'istruzione viene avviato un procedimento disciplinare per aver messo "mi piace" a un contenuto Facebook, che contesta le politiche repressive delle pubbliche autorità, incentivando la protesta. La dipendente viene licenziata per aver disturbato "la pace, la tranquillità e l'ordine del posto di lavoro per scopi ideologici e politici" e provocato e incoraggiato atti di protesta.
La donna decide d'impugnare il provvedimento e ricorre al Tribunale del Lavoro, contestando la base giuridica del proprio licenziamento. Il Tribunale però respinge le richieste, ritenendo che i contenuti commentati non possono considerarsi manifestazione della libertà di espressione. Il contenuto politico del post turba la pace e la tranquillità del posto di lavoro, degli studenti e dei genitori. Il rapporto di lavoro deve quindi dichiararsi cessato.
La ricorrente però ricorre in Appello, ma anche questo giudice respinge le sue doglianze, confermando in sostanza quanto già affermato dal giudice di primo grado. Stesse conclusioni per la Corte di Cassazione.
A questo punto la ricorrente presenta un ricorso individuale davanti alla Corte Costituzionale, sostenendo che le parole "mi piace" aggiunte al contenuto Facebook, che hanno condotto al suo licenziamento, non hanno offeso nessun insegnante o genitore né hanno causato disturbo sul posto di lavoro. Il suo commento dovrebbe essere considerato solo mero esercizio della libertà di espressione e il suo licenziamento una violazione di tale diritto. Purtroppo però neppure la Corte Costituzionale accoglie il suo ricorso, dichiarandolo inammissibile per manifesta infondatezza.
Ricorso alla CEDU per violazione della libertà di espressione
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Alla ricorrente non resta che rivolgersi alla CEDU, innanzi alla quale sostiene che il licenziamento irrogatole risulta contrario all'art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, che così dispone:
"1. Ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione. Tale diritto include la libertà d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione.
2. L'esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l'integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario."
Licenziamento sproporzionato rispetto all'accaduto
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La Corte europea adita accoglie le doglianze della ricorrente, ritenendo il licenziamento del tutto sproporzionato rispetto alla condotta della dipendente.
Criticabile per la CEDU l'operato dei giudici nazionali, che hanno confermato nei vari gradi di giudizio il licenziamento sull'erronea convinzione che il "like" della dipendente abbia turbato la tranquillità sul posto di lavoro, senza considerare l'interesse generale del tema trattato nel post.
L'articolo 10 della Convenzione, ricorda la CEDU, garantisce il diritto alla libertà di espressione e non pone limiti o restrizioni ai discorsi politici di pubblico interesse. La tutela va quindi garantita, anche sul posto di lavoro sia esso pubblico o privato.
Occorre poi considerare che i social media come Facebook sono un innovativo e importante strumento che permette di esercitare la libertà di espressione, migliorando l'accesso del pubblico alle informazioni e anche alle discussioni su questioni d'interesse generale. Ai vantaggi si affiancano naturalmente anche gli svantaggi, soprattutto quando attraverso i social si incita alla violenza.
Nel caso di specie però occorre considerare che la ricorrente non è l'autrice del post. La stessa si è limitata a cliccare su "mi piace" senza condividere il contenuto. La pagina inoltre era seguita da pochi utenti e non ha avuto una grande diffusione.
Di tutti questi elementi i giudici nazionali avrebbero dovuto tenere conto, senza considerare che per le mansioni a cui era addetta la ricorrente, non poteva esercitare alcuna influenza su studenti, insegnanti o altri dipendenti. Deve quindi concludersi che i motivi posti alla base del licenziamento non erano né pertinenti né sufficienti e che la sanzione irrogata quindi è del tutto sproporzionata.
Scarica pdf sentenza CEDU 15 giugno 2021• Foto: 123rf.com