- Il cammino verso la bigenitorialità
- La vicenda processuale
- Mantenimento diretto e tempi paritetici
- Considerazioni conclusive
Il cammino verso la bigenitorialità
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Nel corso degli ultimi anni, anche sotto la spinta delle convenzioni internazionali [1], l'Italia ha acquisito maggiore impulso nell'impervio cammino che, ci si augura a breve, condurrà il nostro Paese alla tanto auspicabile bigenitorialità.
Si deve prendere nota, però, ancor oggi, come nella maggior parte dei tribunali, ed anche nella nomofilassi di legittimità della cassazione, i principi siano tutt'altro che pacifici e che l'impulso di cui si faceva cenno, lasci spesso il posto a spinte reazionarie di tenore monogenitoriale. Ciò, fortunatamente, non è avvenuto nella decisione in commento.
Il decreto del collegio di Perugia (decreto Rvg. 218/2020 del 01/09/2021), tribunale, per la verità, già noto per la sensibilità dimostrata nell'assunzione nel Protocollo in uso in quel foro del Piano Genitoriale [2], offre spunti interessanti su cui dibattere; il primo di questi è, indubbiamente, la conflittualità della ricorrente sull'assegno esorbitante di cui chiede liquidazione al ex-compagno per occuparsi dei suoi figli.
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La vicenda processuale
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La causa origina dal ricorso di una madre che, pur avendo reddito proprio da lavoro stabile di 1.600,00 euro mensili, chiede a seguito della disgregazione della coppia (non sposata) che il padre -il quale gode di un reddito di 2.000,00 euro- venga condannato a pagare 1.000,00 euro al mese per il mantenimento dei due figli che more uxorio erano nati.
Per quanto afferente la frequentazione dei figli col padre, oltre i due pernotti mensili (notti tra il sabato e la domenica alterne), la madre chiede di non determinare aprioristicamente giornate ulteriori di frequentazione per la cui fissazione -così si legge nella motivazione del decreto- ella si riserva di decidere, di volta in volta, in base ai turni di servizio notturni che la stessa sarà chiamata a fare come infermiera professionista.
Insomma, la ricorrente chiedeva una pronuncia in cui la frequentazione dei figli col padre fosse determinata non già dall'interesse dei piccoli di vivere anche con l'altro genitore ma dalla necessità propria di dover "sistemare" i bambini da qualche parte durante i suoi turni all'ospedale.
Una seconda riflessione è data dalla analisi delle reciproche richieste economiche.
Mentre il resistente, il padre per intenderci, vista la pressoché equivalenza dei redditi, chiedeva che, al mantenimento dei figli, entrambi i genitori provvedessero spendendo il necessario direttamente, la ricorrente, invece, chiedeva per sé un assegno di 1.000,00 euro mensili (oltre spese straordinarie).
Ora, lasciando per un solo attimo la valutazione economica delle spese straordinarie, che ogni genitore sa bene non essere da poco, si rifletta sugli esiti che la richiesta materna di assegno perequativo di base avrebbe voluto. Ebbene, se fosse stata accolta la sua domanda, i figli, nei giorni di frequentazione paterna, avrebbero vissuto in condizioni di indigenza.
Se il padre, difatti, guadagna 2.000,00 euro al mese e deve pagare un affitto o un mutuo per la nuova allocazione abitativa a seguito di separazione o divorzio (in questo caso un mutuo per 448,00 euro), si troverebbe a dover affrontare i suoi obblighi di genitore (utenze della casa paterna, vitto per sé e per i figli quando sono con lui, spese straordinarie per i figli) con la risibile somma residua di 500,00 euro mensili.
Un importo pari all'assegno sociale che lo Stato italiano prevede per la sopravvivenza di una (sola) persona! Per tre individui, tale somma comporterebbe uno stato di indigenza.
In breve, se fosse stata accolta la domanda materna, i figli avrebbero vissuto nella casa della madre con un reddito disponibile per tutte le necessità di 2.600,00 euro, mentre avrebbero vissuto nella casa paterna con un reddito disponibile di 500,00 euro.
Evidenze, queste, che forse la conflittualità giudiziaria materna non aveva colto.
Osservato, quindi, che il "mancato accordo dei genitori" origine della causa, sia concentrato su questioni di ordine economico e che in nessun caso le domande di parte ricorrente, emerse nel testo del decreto, avessero come obiettivo il bene dei figli della coppia - i cui diritti di relazione nei desideri materni sarebbero relegati a pochi giorni di frequentazione col padre - ma piuttosto il personale agio, esaminiamo ora il secondo spunto riflessivo, ovvero la soluzione, che pare sia stata identificata dai figli più che dalle parti o dalla magistratura.
Si legge, difatti, nel decreto in commento, che la coppia ha due figli; la prima prossima alla maggiore età ed il secondo di undici anni.
Mentre la figlia maggiore aveva, nelle prospettazioni delle parti, già espresso rifiuto di incontrare il padre secondo un calendario specifico, con ciò aderendo ai desiderata materni, il secondo figlio aveva, ed ancor più voleva, col padre, una frequentazione ampia.
Con queste evidenze, il tribunale decideva di delegare i servizi sociali affinché indagassero sul rifiuto della più grande e sul diverso atteggiamento del più piccolo [3].
È in questa fase del giudizio che la ricorrente, la madre per intenderci, modifica il proprio orario di lavoro presso l'ospedale (escludendo turni notturni) e chiede che i figli vedano il padre soli "cinque giorni al mese" [4] e soli due pernotti; il ché, fa presumere che la conflittualità giudiziaria in corso di istruttoria si faccia, se possibile, ancora più aspra.
Orbene, la relazione dei servizi sociali fotografa una situazione che, a dispetto delle evidenze giudiziarie e delle domande estremizzate che la parte ricorrente ha avanzato in corso di lite, viene descritta come "stabile e serena"; ciò, pur in presenza di un rifiuto della figlia di vedere il padre ("non vuole essere forzata") e un desiderio del figlio di stare di più col papà.
Mantenimento diretto e tempi paritetici
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Giunti, a questo punto, prossimi, quindi, alla conclusione del procedimento, le parti - padre e madre - restano fermi sulle rispettive richieste ed il tribunale decide prendendo atto della volontà dei figli e, limitandosi a fare mera valutazione matematica dei rispettivi redditi, decide per il mantenimento diretto del più piccolo, che vivrà in modo perfettamente paritario con entrambi i genitori e per un assegno perequativo a carico del padre per il mantenimento della sola figlia più grande, in considerazione dei maggiori oneri gravanti sulla madre dovuti al rifiuto della ragazza di incontrare il papà secondo dettami prefissati.
Considerazioni conclusive
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Delle diverse determinazioni contenute nel decreto in esame, però, a suscitare il vivace entusiasmo non è tanto il fatto che ad esser dirimente sia la volontà dei figli minori ma è il mantenimento diretto del figlio più piccolo che in alcuni titoli di riviste giuridiche (e non), assume i caratteri della equazione: "niente assegno, niente mantenimento".
A mente dell'articolo 337 ter Cod. Civ., quarto comma, il nostro Codice dispone "che ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito" e che "il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità".
Dalla disamina del testo normativo, due circostanze emergono palesi: la prima è che l'assegno perequativo non è concedibile de plano, sempre, in qualsiasi condizione ma solo "ove necessario"; la seconda è che l'assegno si rende necessario solo al fine di realizzare un principio di proporzionalità tra i redditi (che quindi devono presentarsi come non omogenei, non paritetici).
Ergo, laddove, considerati i tempi di permanenza e le diverse condizioni che il Legislatore indica come rilevanti [5], si deve escludere che il magistrato possa disporre assegno per il mantenimento indiretto (assegno perequativo) giacché, se questo fosse pronunciato, l'assegno finirebbe per determinare una iniquità tra i redditi che in origine non c'era. Ciò, con grave nocumento per i figli che, come supra visto, si ridurrebbero a vivere nell'indigenza quando si trovano dall'uno genitore e nell'agio eccessivo quando si trovano a casa dell'altro.
In queste fattispecie, ovvero nei casi di sostanziale equivalenza dei redditi, la Legge vuole che ogni genitore si adoperi direttamente all'acquisto di quanto necessario ai figli e che le spese non ordinarie vengano ripartite a metà.
Il ché, quindi, non esclude l'obbligo del mantenimento dei figli ma lo esalta di una partecipazione diretta da parte di entrambi i genitori ed esclude, nel contempo, fenomeni delegativi che sono propri dell'affido esclusivo.
Si deve dire, volendo opportunamente leggere la vicenda come un progresso sociale e culturale, che detta pronuncia si ponga in quel cammino impervio che l'incipit di questo articolo traccia in direzione del principale diritto del minore che le convenzioni internazionali prima e la normativa nazionale di recepimento poi, indicano come irrinunciabile: il diritto dei bambini a vivere con pari opportunità entrambi i genitori anche a seguito di vicende separative.
In questo cammino, diversi tribunali si sono espressi (finalmente) per una parità di genere tra padre e madre nella cura, educazione, mantenimento dei figli [6].
Il contrasto alle discriminazioni di genere nelle vicende separative è una necessità di cui poco o nulla si dibatte trovando, nelle aule giudiziarie, pratiche distorsive della normativa nazionale ed internazionale, che vedono sulla carta decisioni dalla sola parvenza di affido condiviso, ma nella pratica, dal contenuto di esclusività.
Si intende far riferimento, per l'appunto, ai casi frequentissimi di collocamento non paritetico né paritario che vengono ancor oggi fondati, tacitamente, sul presupposto stereotipato della ripartizione dei ruoli uomo-donna nei contesti domestici; la celeberrima maternal preference [7].
Ebbene, chi scrive ritiene che la parità di genere, fondamento del collocamento paritario, costituisca una base educativa fondamentale dei minori i quali, come noto, tendono a replicare ciò che vedono fare agli adulti e giammai ad ascoltare dichiarazioni di principio inattuato.
Si pensi, a tal proposito, a quale valore avrebbe questa forma di educazione alla parità genitoriale tra uomo e donna nella lotta alle discriminazioni di genere che, ad esempio, la Convenzione di Istanbul [8] esprime come indispensabile al fine di prevenire e contrastare ogni forma di violenza.
[1] Prima di ogni altra, la Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza (Convention on the Rigths of the Child - CRC), del 20 novembre 1989, ratificata con Legge n. 176 del 27.05.1991; ma anche l'articolo 24, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell'UE; la Risoluzione del Consiglio d'Europa n. 2079/2015.
[2] Il Piano genitoriale è un modello integrato di accordo tra i genitori ideato nel corpo delle discipline che comprendono l'istituto della coordinazione genitoriale utilizzabile con coppie di genitori che non rispondono ad interventi relazionali di altro tipo (prof. Debra Carter).
[3] Rileviamo la pratica contra legem di molti tribunali secondo cui l'ascolto del minore, diritto inviolabile del fanciullo, venga impropriamente delegato dal giudice a terzi che non sempre posseggono requisiti e capacità analoghe a quelle del giudice: l'art. 336 bis Cod. Civ. recita testualmente che "L'ascolto è condotto dal giudice, anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari".
[4] Sappiamo che la letteratura scientifica psicologica e pedagogica determini nel 30% dei pernotti il limite minimo per garantire al minore una adeguata frequentazione del genitore non collocatario (in Europa prof. G.B. Camerini).
[5] "le attuali esigenze del figlio, il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori, i tempi di permanenza presso ciascun genitore, le risorse economiche di entrambi i genitori e la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore".
[6] Si segnalano le decisioni del tribunale di Catanzaro con decreto 28/2/2019, n. 443, il tribunale Salerno sez. I, 07/11/2019, n.3539; ed ancora, il tribunale Roma sez. I, 26/03/2019, n.6447.
[7] Concetto elaborato negli Stati Uniti a metà dell'800 e già declinato nei primi del '900 a seguito dello sviluppo dell'era moderna nelle ricerche scientifiche pedagogiche e sociologiche.
[8] Non a caso, in diversi passi della Convenzione di Istanbul, si da atto che "il raggiungimento dell'uguaglianza di genere de jure e de facto è un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne". Si legga, ad esempio, l'articolo 12 laddove si determina obbligo agli Stati aderenti ad adottare "le misure necessarie per promuovere i cambiamenti nei comportamenti socioculturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull'idea dell'inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini".