- Stop alla manifesta insussistenza del fatto nei licenziamenti oggettivi
- La "manifesta" insussistenza crea disuguaglianze
- "Manifesta" insussistenza: l'indeterminatezza crea disparità
Stop alla manifesta insussistenza del fatto nei licenziamenti oggettivi
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La Corte Costituzionale cancella la "manifesta" insussistenza del fatto alla base del licenziamento oggettivo. Il giudice non può sindacare nel merito una scelta dell'imprenditore, ma limitarsi a una verifica di legittimità. Trattasi di un criterio indeterminato che presta il fianco a trattamenti iniqui. Esso infatti non si fonda su una graduazione dei vizi per cui spetta al giudice e alle parti, verificare la più o meno marcata graduazione dell'eventuale insussistenza. Questa l'importante precisazione contenuta nella sentenza della Corte Costituzionale n. 125/2022 del 19 maggio 2022 (sotto allegata).
La "manifesta" insussistenza crea disuguaglianze
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Innanzi alla Corte Costituzionale viene sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 comma 7, secondo periodo, della legge n. 300/1970, come modificato dalla legge Fornero n. 92/2012. La censura riguarda in particolare la disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che richiede il carattere "manifesto" dell'insussistenza del fatto alla base del licenziamento.
Il giudice remittente si trova a dover decidere in merito all'opposizione del datore di lavoro all'ordinanza che "ha reintegrato un lavoratore, licenziato tre volte nel giro di alcuni mesi, una delle quali per giustificato motivo oggettivo, le altre due per giusta causa."
L'opposizione del datore riguarda il licenziamento intimato al dipendente per giustificato motivo oggettivo. La questione in particolare riguarda "il carattere manifesto dell'insussistenza del fatto".
Solo in relazione al licenziamento oggettivo infatti è "richiesta - ai fini della reintegrazione del lavoratore - una insussistenza manifesta del fatto e tale trattamento differenziato sarebbe sprovvisto di una plausibile ragion d'essere."
Per il remittente tale previsione si pone in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, che sancisce il principio di uguaglianza. Essa inoltre è del tutto illogica e incerta nella sua applicazione visto che il legislatore non fornisce un "preciso e concreto metro di giudizio, idoneo a definire il carattere manifesto dell'insussistenza del fatto."
La disposizione inoltre, per il remittente, violerebbe anche gli articoli artt. 1, 3, primo comma, 4, 24 35 Costituzione.
"Manifesta" insussistenza: l'indeterminatezza crea disparità
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La Consulta, condividendo le ragioni addotte dal remittente, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla legge Fornero del 2012, limitatamente alla parola "manifesta".
La Corte ricorda che, in relazione al licenziamento oggettivo "quando sia manifesta l'insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, opera la tutela reintegratoria." Reintegrazione che è accompagnata dalla condanna del datore a riconoscere un'indennità risarcitoria, rapportata all'ultima retribuzione globale di fatto e non superiore all'importo di dodici mensilità, per il periodo che intercorre dal licenziamento alla reintegrazione effettiva del dipendente.
Quando non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo il giudice dichiara la risoluzione del rapporto da licenziamento e condanna il datore a pagare un'indennità risarcitoria onnicomprensiva, compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Il diritto del lavoratore a non essere licenziato si fonda sui principi di cui all'art. 4 e 35 Costituzione, in questi caso il ruolo del giudice è fondamentale perché è chiamato ad approntare un equilibrato sistema di tutele attraverso l'esercizio di un potere discrezionale. Ogni volta deve però tenere conto delle caratteristiche del caso concreto per individuare, seguendo le indicazioni fornite dalla legge, la tutela più efficace.
Ora, quanto il datore licenzia il dipendente per ragioni oggettive, lo fa solo per motivi organizzativi e perché in base ad essi non è in grado di collocare altrove il lavoratore. Scelta che comunque rappresenta in questi casi l'estrema ratio.
"Al fatto si devono dunque ricondurre l'effettività e la genuinità della scelta imprenditoriale. Su questi aspetti il giudice è chiamato a svolgere una valutazione di mera legittimità, che non può sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità. (…) Nell'ambito del licenziamento economico, il richiamo all'insussistenza del fatto vale a circoscrivere la reintegrazione ai vizi più gravi, che investono il nucleo stesso e le connotazioni salienti della scelta imprenditoriale, confluita nell'atto di recesso."
In questa valutazione del giudice però il carattere manifesto riferito all'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, è del tutto indeterminato." Indeterminatezza che può condurre a disparità di trattamento.
Infatti "il requisito della manifesta insussistenza demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico." Tale criterio inoltre non ha a che fare con il disvalore del licenziamento che non risulta infatti più grave perché l'insussistenza del fatto è accertabile in giudizio.
La disciplina risulta pertanto squilibrata a causa di uno squilibrio tra i fini enunciati e mezzi in concreto prescelti. Tutto questo finisce per complicare alcuni passaggi del processo poiché, a causa dell' "accertamento, non di rado complesso, della sussistenza o della insussistenza di un fatto, essa impegna le parti, e con esse il giudice, nell'ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell'eventuale insussistenza."
Scarica pdf Corte Costituzionale n. 125-2022• Foto: 123rf.com