Una breve rassegna di diritto comparato sembra ridimensionare la valenza di storica rivincita attribuita alla valutazione della Consulta

La generale filosofia delle questioni di genere

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La pronuncia della Corte Costituzionale che definisce "intollerabile" l'attuale disciplina di attribuzione del cognome dei nuovi nati è andata di inserirsi nella più ampia serie di rivendicazioni femminili, che toccano vari e numerosi aspetti della vita sociale. Senza volersi soffermare più di tanto in questa sede nella esemplificazione degli ambiti in cui la polemica si sviluppa, si può rammentare che sacrosante richieste di parità e pari opportunità che vengono dal mondo femminile, per ottenere il superamento di storiche penalizzazioni, vengono tuttavia anche inquadrate in meno convincenti forme di lettura dell'intero sviluppo storico dell'umanità. In sostanza, una corrente di pensiero attuale ampiamente sostenuta - anche se omette spesso di schierarsi esplicitamente - attribuisce al genere maschile un costante atteggiamento di denigrazione, svalutazione e sopraffazione nei confronti della donna.

Ciò, in effetti, appare perfettamente plausibile ove si pensi alla struttura di organizzazioni collettive la cui potenza era fondata sulla forza fisica, muscolare. Il che riporta a tutto il mondo classico. C'è tuttavia da domandarsi se questa prevalenza maschile di quel tempo in determinati ambiti della vita sociale fosse legata davvero ad una visione dispregiativa del genere femminile o non piuttosto all'esistenza di stereotipi sostanzialmente condivisi e avallati da entrambi i generi nella divisione dei compiti e dei ruoli. Per verificare la plausibilità di una tesi che legge il fenomeno, innegabile, in modo abbastanza più complesso, può farsi ricorso alla rievocazione dei miti dell'antichità classica. Si scorge allora che, non appena si esce dall'ambito della pura e semplice, per non dire brutale, forza fisica le più apprezzabili qualità della psiche e dell'intelletto vengono tipicamente riservate ad esseri femminili, anche ponendoli accanto, e in un certo senso contrapponendoli, ad esemplari maschili.

Gli oggettivi precedenti del mito e della storia

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Ne fornisce esempio illuminante la composizione dell'Olimpo dei greci. Un'assemblea in cui accanto a scialbe, e in qualche caso risibili, figure maschili (basta pensare a Zeus, il padre degli dei) il lume dell'intelligenza più pura viene attribuito alla dea Athena.

Odisseo, il più ammirevole e amato degli eroi greci, non si salverebbe se non godesse della sua continua protezione. Enea viene ripetutamente sottratto alla sconfitta da provvidenziali nuvolette che gli pone intorno Afrodite. E si potrebbe a lungo continuare. Comunque, converrebbe forse riflettere su un altro stereotipo di genere che oggi come non mai sembra dividere i sessi. A quello maschile, infatti, viene attribuita pressoché in esclusiva la tendenza alla violenza, la sete di potere e l'ambizione più sfrenata.

Facendo un passo indietro nel nostro ragionamento, in effetti finché ci si riferisce a situazioni storiche dominate dalla potenza militare, e quindi nelle quali gli esiti venivano determinati dalla prevalenza di capacità belliche, è più che corretta la connotazione negativa da attribuire al genere maschile. Il che, tuttavia, avveniva nella consapevolezza, anche maschile, di questo diverso carattere. Si pensi, ad esempio, alla Lisistrata di Aristofane. Ma è davvero corretto ritenere che l'aggressività muscolare corrisponda al desiderio di manifestare e imporre la propria superiorità e che l'uso della forza fisica sia l'unico modo per agire la violenza, o non sarebbe più vicino al vero considerarla la forma di comunicazione più rozza e primitiva, che segnala l'inferiorità e il disagio di chi la utilizza? Si può pensare al Billy Budd di Melville, che narra di un gabbiere, giovane robusto ma incapace di esprimersi con le parole, che uccide con un pugno il maestro d'armi perché è l'unico modo che conosce per contestare il continuo dileggio che ne subisce, fino alla falsa denuncia.

Il genere femminile, viceversa, possiede una molto migliore padronanza del linguaggio. Il che, oltre tutto, attesta la sua superiorità di base. Il che non esclude aspetti negativi. Volendo, si può rammentare una indagine dell'EURISPES del 2005 secondo la quale la violenza endofamiliare fisica risultava prevalentemente maschile, mentre quella psicologica prevalentemente femminile. E, tornando al quadro storico, non appena la strategia, ovvero la sottile politica, nei rapporti tra le nazioni ha cominciato a prevalere sulla semplice e brutale forza degli eserciti si è potuto osservare l'ascesa e il dominio di capi di Stato come Elisabetta I Tudor e Caterina di Russia; non certo estranee all'ambizione del potere. E non avrebbe senso rammentare ancor più illuminanti esempi recenti dei quali le cronache sono ancora piene.

Naturalmente si potrà obiettare che questo vale solo (e neppure del tutto: si pensi alla "legge salica") per le grandi figure della storia, ma che nella vita di tutti i giorni la condizione femminile è sempre stata fortemente penalizzata. Assolutamente innegabile, soprattutto nella visione del nostro tempo; e non solo. Ma c'è da chiedersi se questo non sia dipeso in buona misura da quegli stereotipi di genere ai quali si alludeva sopra, a quella divisione dei ruoli, delle competenze, dei domini che caso per caso, luogo per luogo e di tempo in tempo veniva gestita e accettata da entrambi i generi. In altre parole può venire il dubbio che non esista una sorta di rigido e sistematico complotto storico - almeno così come viene oggi riportato e descritto - ma organizzazioni sociali che, pilotate da eventi non volontari e situazioni locali - hanno portato a strutture sia patriarcali che matriarcali.

Un esempio illuminante di evoluzione del cognome: la Spagna

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Arriviamo così al tema più attuale, ovvero la decisione della Consulta relativa all'attribuzione del cognome. Occorre anzitutto premettere alcune osservazioni di carattere generale sulla valenza dii esso e, in particolare, sugli effetti che produce il doppio cognome all'interno di una comunità di stati, soprattutto nel caso delle sempre più frequenti unioni di cittadini di paesi diversi. È questo un parametro che avverte della utilità di attribuire in modo immediatamente riconoscibile l'appartenenza a ceppi di nazionalità diversa. Ciò si percepisce soprattutto all'interno della Unione Europea, che per questa via tutela i diritti dei propri cittadini. Certamente, la preoccupazione perché venga rispettata la parità di genere e i tentativi di realizzarla occupano primissimi piani a partire da tempi relativamente recenti, mentre da secoli si fa sentire l'esigenza per lo Stato di poter identificare i cittadini, distinguendoli fra loro. Anticipando argomenti successivi, tale problema è rilevante particolarmente in quei paesi, come la Spagna, in cui l'uso dei nomi propri, anche aggiungendo il patronimico (Mendoza, Jimenez ecc.), è talmente ripetitivo che le coincidenze diventano ordinarie.

Seguendo, dunque, ordinatamente la nascita e l'evoluzione del cognome in Spagna, paese fortemente rappresentativo della tematica, si osserva che la prima testimonianza sulla formazione del cognome risale al I secolo a.C. ed è riferita a un gruppo di cavalieri ispanici (Turma Salluitana) la cui connotazione, si legge, è formata da due elementi, il nome personale proprio, che precede il nome del padre, ovvero il cognome. Tuttavia, la permanenza nella popolazione di nomi o cognomi materni nella formazione dei cognomi spagnoli fa ritenere, secondo la testimonianza di Strabone (I secolo d.C.) e altri autori classici, che presso le genti della Cantabria, delle Asturie e della Galizia - di tradizione matriarcale - esistesse il costume di conferire ai figli il cognome materno, certamente con preferenza rispetto a quello paterno. Arriva poi, tuttavia, la conquista della Spagna da parte dei Visigoti (sec. V d.C.), il che modifica il costume nella costruzione dell'appellativo che individua la persona, con un ritorno al passato. In tal caso si utilizza principalmente un nome di battaglia, formato da due termini, un nome proprio e un epiteto che sottolinea qualche virtù, prevalentemente bellica. Per chiarezza si può pensare ad Alfonso, che generalmente viene fatto discendere da Adalfuns, composto da adal (o athal, nobile) - o anche hild, ovvero hadu, battaglia - e da funs ("pronto", "preparato"). Lo stesso meccanismo di formazione che vale per nomi che consideriamo tipicamente spagnoli, come Ramon o Rodrigo. Il contributo dei musulmani consolidò l'uso di due parti, il nome proprio e il cognome paterno. Tuttavia la Riconquista dei territori moreschi, durata 800 anni e completata solo nel 1492, così come l'influenza delle zone sopra citate (Catabria, Asturie e Galizia), provocarono il ritorno del cognome materno, la cui persistenza è un fenomeno le cui radici non sono facili da individuare a distanza di oltre venti secoli.

Si giunge così al secolo XIX, quando l'uso del doppio cognome si estese in tutti gli ambiti fino a convertirsi in una norma obbligatoria, mutuata anche da molti paesi dell'America Latina quanto meno come usanza. E di qui ai giorni nostri, in cui l'attribuzione del cognome (doppio, uno per linea ascendente) è disciplinata dall'art. 109 del nuovo Codigo Civil (riforma del 30 giugno 2017), che la rimette all'accordo dei genitori per quanto riguarda l'ordine. Se l'accordo manca questo è determinato per sorteggio.

In definitiva nell'intero percorso spagnolo di determinazione del cognome non si scorge alcuna possibilità di individuare alcun "superamento di pregiudizi antifemminili".

Il trend e le scelte attuali di altri paesi

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Volgendo ora altrove lo sguardo, si va incontro ad un gigantesco diffuso sforzo di essere totalmente equilibrati e oggettivi. Ogni paese, all'interno della sua storia e della sua cultura, sta provando a superare qualsiasi differenza di genere nell'attribuzione del cognome ai figli, spesso affrontando la più minuziosa delle casistiche, il che dimostra la sensibilità al problema.

In generale si privilegia l'accordo dei genitori, sia verso un solo cognome comune che verso un doppio cognome, nell'ordine da essi stabilito. Anche se nel caso di figli nati fuori del matrimonio prevale il cognome materno. E' il caso, ad esempio, della Russia (v. Codice della Famiglia, adottato con la Legge federale del 29 dicembre 1995 n. 223-FZ, pubblicata sulla Rossijskaja Gazeta del 27 gennaio 1996 ed entrato in vigore il 1° marzo 1996.

Ciò non toglie che esistano differenze e particolarità, legate alle scelte più o meno intelligenti che ciascuno Stato ha ritenuto opportuno fare. In questo senso, ad esempio, per la Francia (Code civil, art. 311-21 e segg.) si osserva che in assenza di dichiarazione congiunta sulla scelta e di contemporaneo riconoscimento il cognome sarà quello del padre. Tuttavia, in caso di disaccordo segnalato all'ufficiale di Stato Civile il figlio assume automaticamente il cognome di entrambi, seguendo l'ordine alfabetico. Non è superfluo rammentare che in Italia il suggerimento dato dalla Consulta al Parlamento è viceversa quello di adire il giudice, ovvero impiantare una lite. Un approccio che appare sicuramente meno condivisibile.

In Germania, in particolare, si è deciso di riconoscere diritto di parola al figlio a partire dai cinque anni (§§ 1616-1618 del Codice civile tedesco, Burgerliches Gesetzbuch) nel caso in cui il genitore che abbia l'affidamento esclusivo voglia far attribuire al bambino il cognome dell'altro genitore; ovvero è indispensabile il suo consenso. Ivi, infatti, si presta grande attenzione al regime di affidamento stabilito, distinguendo quello congiunto (Gemeinsame Sorgerecht) da quello esclusivo.

La Svizzera, d'altra parte, concede ai genitori un anno di tempo a partire dalla nascita per attribuire al figlio un solo cognome, materno o paterno (§ 270 ZGB).

il Portogallo viceversa, si distingue per la possibilità di attribuire i figli un numero superiore a due di cognomi, fino a sei.

La Svezia e l'Austria (§ 155 ABGB, Codice Civile Generale) si caratterizzano per un sostanziale favor materno all'interno di una ampia varietà di casi e sottocasi. La Svezia soprattutto presenta aspetti di particolare interesse, a partire da fatto che i nomi propri sono abitualmente due e non necessariamente il loro ordine segnala quello più largamente utilizzato, tanto che scrivendoli si contrassegna quest'ultimo con un asterisco. Ad es., se si scrive Märta Birgit* Karlsson si intende che quella persona è conosciuta come Birgit Karlsson. E' curioso, dunque, che in un paese ove si utilizza largamente il doppio nome sia stato illegale fino al 2012 l'uso del doppio cognome, introdotto solo allora, con modifica di legge a seguito di una vertenza con l'UE (2012:66 entrata in vigore il 1 Marzo 2012), per il caso di una coppia ispano-svedese. Inoltre il nome proprio non può essere scelto liberamente dai genitori, ma questi devono proporlo ad una speciale agenzia dello Stato entro 3 mesi dalla nascita, che ha facoltà di accettarlo oppure no. Ovviamente la regola si giustifica con l'interesse a tutelare il bambino da scelte per lui sconvenienti o dannose. Ma è evidente il presupposto ("Stato etico") che la anima: lo Stato è in grado meglio dei genitori di fare il bene dei loro figli.

In direzione opposta si muove il Regno Unito, il paese che presenta le possibilità più interessanti. In quella legislazione, da sempre altamente liberal, lo Stato cerca di intromettersi meno possibile nella determinazione del cognome, al punto che è concessa ai genitori perfino la facoltà di ripartire da zero, attribuendo al figlio un cognome da loro stessi inventato. Una linea in cui si colloca anche l'Ungheria (art. 150, c. 4, Codice civile) che consente la massima creatività nel combinare i cognomi di padre e madre, permettendo, inoltre, alle madri di attribuire a figli non riconosciuti dai padri cognomi di fantasia.

Volendo davvero abbattere le differenze di genere questa possibilità si presenta come il più mezzo idoneo, equilibrato ed efficace.

L'Italia e l'esigenza di coerenza nelle rivendicazioni attuali

A conclusione di questa breve rassegna qualche precisazione non appare fuori luogo, inserendosi in un ragionamento più ampio.

Ripensando sia pur brevemente, agli stereotipi di genere nella cultura e nel contesto politico italiani, salta agli occhi il persistere di una visione sessuata del diritto, che tanto più dà fastidio in quanto praticata in un ambito in cui, Costituzione alla mano, si dovrebbe assicurare a tutti i cittadini lo stesso trattamento a prescindere da qualsiasi altro parametro, a partire dal genere. Ciò dovrebbe valere ovviamente, in entrambi i sensi, per i benefici come per gli svantaggi. Onori e oneri viaggiano insieme, inevitabilmente. Si ironizza verso chi cita l'antica legge del mare ("prima le donne e bambini"), ma in effetti non si vedono donne sui ponteggi o in miniera. E non si tratta di teorie. Le denunce di infortunio con esito mortale nel 2021 hanno contato 126 casi per la componente femminile e 1095 per quella maschile.

Ma resta il fatto che è assolutamente giusto e opportuno eliminare le differenze di genere, là dove davvero ce ne sia il bisogno. Entrando un po' più nel merito, si osserva che gli stessi soggetti che si sono espressi trionfalmente rispetto al suggerimento di nuove regole per il cognome (di per sé indiscutibilmente corretto) hanno anche da diverso tempo ingaggiato una battaglia meno convincente per la modulazione al femminile di termini finora usati pressoché esclusivamente al maschile. All'interno della tematica dei nomi, non può ignorarsi la volontà di far coincidere il loro genere con quello del soggetto fisico indicato dal termine stesso. Molto brevemente, è così che è stata adottata la declinazione "assessora", "ministra" e così via quando la funzione è svolta da una donna. Nulla di male, naturalmente, la lingua è materia viva. Tuttavia non si può nascondere un certo minimo sollievo visto che ancora nessun capo di stato maschile ha preteso di essere chiamato "il guido" del paese, anziché la guida, gli zoologi non ci hanno inflitto "il pantero" e "la bisonta" e una nota eccellente musicista ha rifiutato di farsi chiamare "maestra concertatrice e direttrice di orchestra".

Quindi le nuove norme suggerite per l'attribuzione del cognome ci trovano assolutamente d'accordo. Solo che occorre essere coerenti. Restando nell'ambito del diritto di famiglia, sorprende e lascia perplessi che ci siano ben organizzati gruppi nell'ambito politico e sociale (i medesimi della femminilizzazione dei termini relativi alle funzioni) che rivendicano parità e pari opportunità per la donna, ma al tempo stesso nel momento in cui si rompe il rapporto di coppia puntano i piedi perché alla madre sia riconosciuto un ruolo di gran lunga prevalente nella cura e nell'allevamento dei figli. Addirittura insistendo per mantenere il ruolo di genitore accudente perfino oltre la loro maggiore età. E l'aspetto più preoccupante è che in realtà il diritto va loro dietro. Anzi, non è azzardato supporre che sia alla guida del fenomeno con precise responsabilità, ovvero che possa essere uno dei principali motivi della persistenza degli squilibri. In altre parole, forse è proprio il modo in cui sono stati letti provvedimenti innovativi come l'affidamento condiviso a rallentare il processo di assimilazione nell'ambito della famiglia. Prestampati e protocolli distribuiti nelle cancellerie dei tribunali quasi sempre promuovono modelli asimmetrici di affidamento - con "privilegio" (cioè penalizzazione) materno implicito o esplicito - nei confronti dei quali non si sente la voce di quei soggetti che sbandierano il doppio cognome come storico successo di una loro battaglia.

Tutto ciò che è stato affermato dalla Consulta e qui riferito non può, pertanto, che trovarci d'accordo nel momento in cui, senza contraddizioni, si cerca di evolvere verso una condizione di pari dignità e diritti-doveri tra la donna e l'uomo. Lascia perplessi il tentativo di insistere in una sorta di braccio di ferro tra i generi - a volte condotto con lo spirito della tardiva vendetta - continuando a fornire di ogni mutamento una lettura di parte, con approccio animoso e polemico.


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