Abuso permessi legge 104 e licenziamento
E' illegittimo il licenziamento del lavoratore che durante i permessi 104 si prende una pausa per legge un libro al parco. E' quanto si ricava dall'ordinanza della sezione lavoro della Cassazione n. 7306/2023 (sotto allegata) che ha rigettato il ricorso della società datrice avverso la sentenza della Corte d'Appello di Genova.La Corte territoriale aveva dichiarato illegittimo il licenziamento
, ritenendo non decisivi, gli intervalli di tempo non dedicati alla cura dei genitori da parte del dipendente ma, ad esempio, alla lettura di libri presso i giardini pubblici, circostanza rilevata dagli investigatori in due distinte occasioni nel periodo di tempo considerato (corrispondente all'orario di lavoro) e ogni volta per la durata di circa due ore. La sentenza impugnata ha ritenuto, nello specifico, che fosse sostanzialmente garantita dal lavoratore l'assistenza ai genitori, nei sette giorni oggetto di investigazione, ed ha sottolineato come tale onere di assistenza dovesse valutarsi con la necessaria flessibilità, in modo da poter considerare anche i bisogni personali del dipendente e l'integrità del suo equilibrio psicofisico, sottoposto ad una gravosa prova per le incombenze legate alla cura dei familiari in difficili condizioni di salute; ciò secondo una interpretazione che tenga conto dei principi costituzionali di tutela della salute e della solidarietà familiare. Per cui hanno considerato che la condotta del lavoratore non costituisse un grave inadempimento degli obblighi sul medesimo gravanti ed hanno giudicato il licenziamento privo di giusta causa ed anche di giustificato motivo soggettivo.Il datore di lavoro adisce quindi la Cassazione, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 33, legge 104 del 1992.
Ma anche gli Ermellini gli danno torto.
Il permesso mensile retribuito di cui all'art. 33, comma 3 cit., come sottolineato dalla Corte Cost. nella sentenza
213 del 2016, premettono i giudici, "è espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell'assistenza di un parente disabile grave. Si tratta di uno strumento di politica socioassistenziale, che, come quello del congedo straordinario di cui all'art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, è basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale".La ratio della previsione in esame è dunque quella di "assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell'assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare" (v. Coste cost., sentenze n. 19 del 2009 e n. 158 del 2007) e si inserisce nelle più ampie finalità della legge 104 del 1992, di tutela dei soggetti portatori di handicap in situazione di gravità, affetti cioè da una compromissione delle capacità fisiche, psichiche e sensoriali tale da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, secondo quanto previsto dall'art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992 (v. Cass. n. 21416/19)". Il nesso che il testo normativo pone, spiegano ancora da piazza Cavour, "non è di tipo strettamente temporale, cioè tra la fruizione del permesso e la prestazione di assistenza in precisa coincidenza con l'orario di lavoro, bensì funzionale, tra il godimento del permesso e le necessità, gli oneri, gli incombenti che connotano l'attività di assistenza delle persone disabili in condizioni di gravità. Il contenuto dell'assistenza che legittima l'assenza dal lavoro (il permesso retribuito), quindi i tempi e i modi attraverso cui la stessa viene realizzata, devono individuarsi in ragione della finalità per cui i permessi sono riconosciuti, cioè la tutela delle persone disabili, il cui bisogno di ricevere assistenza giustificata il sacrificio organizzativo richiesto al datore di lavoro". Elemento essenziale della fattispecie di cui all'art. 33, comma 3 cit., è dunque "l'esistenza di un diretto e rigoroso nesso causale tra la fruizione del permesso e l'assistenza alla persona disabile, da intendere, come questa Corte ha già chiarito, non in senso così rigido da imporre al lavoratore il sacrificio, in correlazione col permesso, delle proprie esigenze personali o familiari in senso lato, ma piuttosto quale chiara ed inequivoca funzionalizzazione del tempo liberato dall'obbligo della prestazione di lavoro alla preminente soddisfazione dei bisogni della persona disabile. Ciò senza automatismi o rigide misurazioni dei segmenti temporali dedicati all'assistenza in relazione all'orario di lavoro, purché risulti non solo non tradita (secondo forme di abuso del diritto) ma ampiamente soddisfatta, in base ad una valutazione necessariamente rimessa al giudice di merito, la finalità del beneficio che l'ordinamento riconosce al lavoratore in funzione della prestazione di assistenza e in attuazione dei superiori valori di solidarietà sopra richiamati (v. Cass. n. 19580/2019; Cass. n. 21520/2019; Cass. n. 30676/2018; Cass. n. 23891/2018; Cass. n. 20098/2017)".
Fatte queste premesse, è escluso dunque un utilizzo dei permessi in funzione "meramente compensativa" delle energie impiegate dal dipendente per l'assistenza fornita in orario extralavorativo e "spetta al giudice di merito valutare se la fruizione dei permessi possa dirsi in concreto realizzata in funzione della preminente esigenza di tutela delle persone affette da disabilità grave, e pur nella salvaguardia di una residua conciliazione con le altre incombenze personali e familiari che caratterizzano la vita quotidiana di ogni individuo".
Nel caso di specie, la Corte di appello si è attenuta ai principi e criteri di giudizio appena richiamati e, sulla base di un puntuale accertamento e senza inversione alcuna degli oneri di prova, ha verificato come i giorni di permesso ex art. 33 cit. siano stati utilizzati dal lavoratore in misura prevalente per esigenze connesse all'assistenza dei genitori disabili, sia sotto forma di assistenza domiciliare e sia attraverso accessi in negozi sanitari e studi medici, contatti con altri familiari coinvolti nella cura dei genitori, escludendo di conseguenza che potesse configurarsi un inadempimento di rilievo disciplinare. La Corte territoriale è dunque giunta alla conclusione che "la condotta posta in essere dal lavoratore nella fruizione dei permessi non integrasse un abuso o uno sviamento dalle finalità del beneficio e che quindi fosse insussistente il fatto contestato, dovendo trovare applicazione la tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, della legge 300/1970, come modificato dalla legge 92/2012".
Non vi è spazio, in sostanza, per invocare la tutela di cui all'art. 18, comma 5, cit. poiché essa comunque presuppone che un fatto di rilievo disciplinare sia stato commesso e sia imputabile al lavoratore, ma che rispetto a tale fatto, per le caratteristiche oggettive o soggettive, risulti sproporzionata la sanzione espulsiva. Da qui il rigetto del ricorso.
Scarica pdf Cass. n. 7306/2023• Foto: Foto di Marcel Gnauk da Pixabay.com