Avvocati, divieto di patto di quota lite
Il divieto di patto di quota lite ex art. 13 L. n. 247/2012 "è applicabile sia all'attività stragiudiziale, quando si fa riferimento alla prestazione, sia all'attività giudiziale, quando si fa riferimento alla ragione litigiosa". Inoltre, "la proporzione e la ragionevolezza nella pattuizione del compenso rimangono l'essenza comportamentale richiesta all'avvocato, indipendentemente dalle modalità di determinazione del corrispettivo a lui spettante, sicché l'eventuale patto di quota lite non può comunque derogare al divieto deontologico di richiedere compensi manifestamente sproporzionati". Sono i principi ribaditi dal Consiglio Nazionale Forense nell'articolata sentenza n. 206/2022 (sotto allegata), pubblicata il 16 marzo 2023 sul sito del codice deontologico.La vicenda ha per protagonista un avvocato sospeso per due mesi dalla professione per aver chiesto al proprio assistito (un marito per l'incidente mortale della moglie) un compenso ulteriore del 10% rispetto a quanto liquidato dall'assicurazione per il risarcimento del danno parentale.
La cifra era stata ritenuta manifestamente sproporzionata rispetto alla non complessità e durata dell'attività svolta dal Consiglio di disciplina del Veneto, mentre l'avvocato insisteva che si trattava di un importo onnicomprensivo che teneva conto di tutte le attività svolte, comprese le pratiche ulteriori (inerenti ad es. i certificati in comune, il nulla osta per la cremazione della salma, ecc.). Ma per il CNF, tali attività non attengono alla professione ma ai rapporti personali.
Quanto al patto di quota lite, il Consiglio richiama la normativa in materia, ossia l'art. 13 della legge n. 247/2012 che vieta "i patti con i quali l'avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa" e che consente la pattuizione "rapportata al valore dei beni o agli interessi litigiosi, ma non al risultato".
Ed è questa, per il CNF, "la differenza tra il consentito e il non consentito, cioè legare il compenso al valore della controversia o all'esito previsto (consentito) piuttosto che al risultato (non consentito).
A nulla vale, neanche il ragionamento del ricorrente, che distingue i beni fungibili da quelli infungibili.
"Infatti - continua il Consiglio - ciò che è vietato è pattuire il compenso che sia una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa che nel caso del risarcimento del danno è, di norma, l'equivalente in denaro cosicché, come nella fattispecie, la ragione litigiosa è il denaro e il compenso pari ad una percentuale del denaro è una quota della lite".
Inconferente anche l'eccezione relativa all'inapplicabilità del divieto all'attività stragiudiziale.
"Il quarto comma dell'art. 13 della legge 247/2012 fa riferimento sia al bene oggetto della prestazione che alla res litigiosa. Sembra a questo Collegio - scrive infatti il CNF - che la doppia previsione sia nel senso che il divieto di patto di quota lite sia applicabile sia all'attività stragiudiziale, quando si fa riferimento alla prestazione, sia all'attività giudiziale, quando si fa riferimento alla ragione litigiosa. A nulla vale a tal proposito la considerazione per la quale l'attività stragiudiziale non è riservata agli iscritti agli albi in quanto i principi di libertà, autonomia e indipendenza connotano l'attività professionale in ogni suo aspetto, sia in quella giudiziale che in quella stragiudiziale nel rispetto del principio costituzionale di inviolabilità del diritto di difesa in ogni contesto (art. 24 cost.), distinguendo tale attività da quella di ogni altro soggetto che possa prestarla per quanto non riservato agli iscritti agli albi. Ciò anche per l'evidente ragione che l'attività difensiva dell'avvocato non può essere ispirata a principi commerciali com'è quella che può essere esercitata in via stragiudiziale da coloro che non sono iscritti agli albi".
Tale assunto è di per sé sufficiente, conclude il CNF, a giustificare il rigetto del motivo di ricorso, anche a prescindere dal fatto che la condotta contestata all'avvocato ricomprende non solo la sottoscrizione di un patto sul compenso legato al risultato della prestazione professionale, ma anche la manifesta sproporzione del compenso richiesto, che costituiva illecito deontologico anche nell'intervallo temporale nel quale il divieto di patto di quota lite era stato abrogato, da valere come limite insuperabile del compenso a percentuale sul risultato.
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