"Attraverso l'istituto della revocazione non è (…) possibile ottenere la tutela specifica del diritto all'abitazione nella casa familiare, attribuito al coniuge con il provvedimento di assegnazione emanato in un giudizio di separazione personale o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nei confronti del terzo acquirente dell'immobile dall'altro coniuge che ne era proprietario, né in via di azione mediante la richiesta di inibire all'acquirente di chiederne la consegna in conseguenza dell'atto di acquisto e né in via di eccezione all'esecuzione per rilascio da questo promossa. (…) L'azione revocatoria, essendo diretta a conservare nella sua integrità la garanzia generica assicurata al creditore dal patrimonio del debitore, ove esperita vittoriosamente, non travolge l'atto di disposizione posto in essere dal debitore, ma determina semplicemente l'inefficacia di esso nei confronti del creditore che l'abbia esperita per consentire allo stesso di esercitare sul bene oggetto dell'atto, l'azione esecutiva per la realizzazione del credito, e non può essere esercitata, quindi, dall'assegnatario della casa coniugale al fine di inibire, all'acquirente dell'immobile venduto dal coniuge titolare del bene, di chiedere la consegna dello stesso in conseguenza dell'atto di acquisto". È questo il principio contenuto in una recente pronuncia della Cassazione (Sent. n. 11830/2007) con la quale la Suprema Corte è intervenuta sulla questione di una donna cui era stato riconosciuto il diritto all'abitazione nella casa familiare successivamente alienata dall'ex coniuge alienata ad una terza persona.
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