Permesso premio per il boss mafioso
Il boss mafioso può ottenere un permesso premio per partecipare alla messa. Negarlo, in ragione della sola operatività del clan mafioso nel contesto, nonostante il percorso detentivo esemplare e l'assenza di indici di vicinanza agli affiliati, implica inaccettabilmente che l'unica condizione che potrebbe consentire al detenuto di ottenere il permesso premio sarebbe la collaborazione con la giustizia.
Così la Cassazione (prima sezione penale) nella sentenza n. 21355/2023 (sotto allegata) accogliendo le doglianze di un detenuto per omicidio aggravato dal metodo mafioso avverso il rigetto dell'istanza per la concessione di un permesso premio per partecipare ad una funzione religiosa.
Il tribunale di sorveglianza, pur rilevando la sussistenza di "sicuri indici di un percorso carcerario esemplare" e di "una profonda revisione critica del proprio passato con adesione convinta ai principi religiosi cattolici", aveva rigettato il reclamo del detenuto, ritenendo che tali elementi non fossero sufficienti a dimostrare "la recisione dei legami" associativi e "l'esistenza delle condizioni che escludano in radice la ripresa della relazione con il gruppo criminale".
L'uomo ricorre per cassazione, con il ministero del difensore di fiducia, lamentandosi della motivazione illogica e contraddittoria dell'ordinanza impugnata e gli Ermellini gli danno ragione.
"La Corte costituzionale, con sentenza n. 253 del 2019, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 4-bis, comma 1, ord. penit., nella parte in cui non prevedeva che ai detenuti per i delitti ivi elencati potessero essere concessi permessi premio, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, in assenza di elementi che consentano di ritenere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata ovvero il pericolo di un loro ripristino" premettono dal Palazzaccio. Per cui, "per effetto di tale pronuncia, sui giudici della Sorveglianza grava il compito di effettuare questa duplice verifica, prima di poter valutare negativamente la richiesta di permesso premio", come nella fattispecie in esame.
Invero, rilevano i giudici, la valutazione del tribunale "è totalmente avulsa dal giudizio personologico - assolutamente positivo - effettuato nella prima parte del provvedimento, con l'effetto che la motivazione risulta evidentemente illogica, e in parte mancante, dato che il Tribunale ha compiuto un giudizio astratto, senza tener adeguatamente in considerazione il contenuto delle informative di Polizia, dalle quali, come evidenziato nel provvedimento, non risultava neppure un indice di 'possibile futura ripresa' dei collegamenti criminali".
L'ordinanza, in sostanza, si risolve nella surrettizia "reintroduzione parziale della presunzione assoluta di pericolosità sociale che era stata censurata dalla Consulta".
Negando "il permesso premio al detenuto per reati ostativi in ragione della sola operatività del clan mafioso nel contesto, nonostante l'esemplare percorso detentivo e l'assenza di indici di appartenenza all'associazione o di una sua attuale vicinanza agli affiliati, implicitamente si afferma, inaccettabilmente, che, finché il clan risulterà essere attivo, l'unica condizione che potrebbe consentire al detenuto di ottenere la concessione di un permesso premio è la collaborazione con la giustizia" concludono da piazza Cavour.
Per cui l'ordinanza impugnata va annullata con rinvio al tribunale di sorveglianza per nuovo esame.
Scarica pdf Cass. n. 21355/2023• Foto: 123rf.com