Licenziamento per molestie sessuali
Le allusioni a sfondo sessuale alla collega giustificano il licenziamento del lavoratore. Così la sentenza n. 23295/2023 (sotto allegata) della sezione lavoro della Cassazione.Nella vicenda, la corte d'appello aveva respinto il reclamo di un lavoratore avverso la decisione con cui il tribunale di Arezzo aveva dichiarato legittimo il licenziamento a lui intimato per aver tenuto comportamenti consistenti in molestie sessuali in danno di una giovane collega neoassunta con contratto a termine e assegnata a mansioni di addetta al banco del bar, al pari del ricorrente.
La corte territoriale aveva ritenuto che il comportamento addebitato all'uomo, denunciato in due diverse occasioni dalla lavoratrice alla direzione aziendale, consistito in allusioni verbali e fisiche a sfondo sessuale, comunque indesiderato e oggettivamente idoneo a ledere e violare la dignità della collega di lavoro, costituisse giusta causa del licenziamento, a nulla rilevando che fosse assente la volontà offensiva e che in generale il clima dei rapporti tra tutti i colleghi fosse spesso scherzoso e goliardico.
Il lavoratore adiva perciò la Cassazione, lamentando tra l'altro l'omesso esame di fatto decisivo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) quale la prova documentale della inattendibilità della lavoratrice denunciante costituita dal provvedimento di archiviazione del GIP circa la denuncia di violenze sessuali e stalking, nonché "della valutazione di oggettiva idoneità del comportamento addebitato a ledere la dignità".
Gli Ermellini gli danno torto. Quanto al primo motivo, osservano preliminarmente che "il reato di stalking era estraneo ai fatti di causa ed alle ragioni del licenziamento e dunque non rilevante l'esito del procedimento penale su tali fatti rispetto al recesso datoriale" e che peraltro era rimasta "non dimostrata la oggettiva 'inattendibilità' della lavoratrice e comunque estranea tale valutazione al perimetro del vizio di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Quanto alla seconda doglianza, la corte d'appello, per il Palazzaccio, si è mossa nella cornice di definizione di molestie come consegnata dall'art. 26 del D.Lgs. n. n. 198/2006; "ha dunque considerato le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo". Il giudice del gravame "ha quindi valutato che il carattere comunque indesiderato della condotta, pur senza che ad essa conseguano effettive aggressioni fisiche a contenuto sessuale, risulti integrativo del concetto e della nozione di molestia, essendo questa e la conseguente tutela accordata, fondata sulla oggettività del comportamento tenuto e dell'effetto prodotto, con assenza di rilievo della effettiva volontà di recare una offesa". Il giudizio così espresso, "basato sulla corretta sussunzione dei fatti accertati attraverso le prove acquisite nella nozione legale di molestie sopra indicata, costituisce la regolare attività valutativa del giudice di merito" concludono i giudici dichiarando il ricorso inammissibile.
Scarica pdf Cass. n. 23295/2023• Foto: 123rf.com