La vicenda portata all'attenzione del CNF (sentenza n. 177/2023 sotto allegata) prende avvio da un drammatico accaduto, a poca distanza dal quale la segretaria dello Studio legale protagonista del caso in esame, pubblicava un post sulla pagina Facebook dello Studio, invitando le vittime dell'evento a rivolgersi allo Studio per ottenere un risarcimento.
Leggi anche Sospeso l'avvocato che offre prestazioni a prezzi simbolici
Veniva altresì precisato che le elevate prestazioni professionali offerte sarebbero state pagate solo a seguito dell'avvenuto ristoro.
Nell'ambito del contenzioso in esame i ricorrenti, spiegando che la pubblicazione del post era avvenuta per mano della segretaria, ritenevano che la decisione impugnata aveva riconosciuto la loro responsabilità deontologica, tra i vari per illecito accaparramento di clientela, sulla base di "criteri di verosimiglianza e del teorema "non poteva non sapere" e senza distinguere i ruoli e le posizioni, in violazione del principio della personalità della responsabilità disciplinare".
A fronte delle suddette contestazioni, il Consiglio ha confermato le conclusioni cui era giunta la CDD di Venezia, la quale aveva riconosciuto la responsabilità dei ricorrenti, sia sotto il profilo della inadeguatezza e carenza del modello organizzativo adottato per la gestione del web markentig dello Studio, sia sotto il profilo della culpa in eligendo e in vigilando degli avvocati rispetto alle condotte dei propri delegati.
Quanto al primo aspetto il C.N.F. ha, infatti, ribadito l'imprudenza dei ricorrenti nell'aver delegato un'impiegata alla redazione e alla pubblicazione di contenuti sulla pagina Facebook dello Studio e di averle "attribuito in via generale (e senza eccezioni) una estrema autonomia nella costruzione e nella pubblicazione dei messaggi destinati alla rete.", ritenendo perciò carente il modello organizzativo dagli stessi adottato.
Quanto, invece, al secondo aspetto, nel caso di specie la culpa in eligendo è derivata dalla scelta dei ricorrenti di far redigere e diffondere i post dello Studio ad una dipendente in totale autonomia, la quale nei fatti ha dimostrato di "non sapere discernere tra un messaggio "ordinario" (…) e un messaggio di straordinaria portata e rilevanza".
Per quanto invece attiene alla culpa in vigilando degli incolpati, il C.N.F. ha affermato che gli avvocati non avevano predisposto un efficace e permanente sistema di controllo preventivo sull'operato della dipendente delegata alle suddette attività.
Sulla scorta di quanto sopra riferito, il C.N.F. ha confermato la responsabilità deontologica dei ricorrenti per le attività compiute dalla propria dipendente, in quanto "è pacifico (…) che il professionista risponde anche dell'operato dei suoi associati, collaboratori e sostituti; che l'imputabilità (in ipotesi) ad essi delle condotte contestate (commissive o omissive) non incide sul requisito della suitas; che la culpa in vigilando non esclude la sussistenza dell'elemento psicologico. Infatti, «la responsabilità del professionista ai fini dell'addebito dell'infrazione disciplinare non necessita di cosiddetto dolo specifico e/o generico, essendo sufficiente la volontarietà con cui l'atto e? stato compiuto ovvero omesso, anche quando questa si manifesti in un mancato adempimento all'obbligo di controllo del comportamento dei collaboratori e/o dipendenti.
Il mancato controllo costituisce piena e consapevole manifestazione della volontà di porre in essere una sequenza causale che in astratto potrebbe dar vita ad effetti diversi da quelli voluti, che pero? ricadono sotto forma di volontarietà sul soggetto che avrebbe dovuto vigilare e non lo ha fatto»".
Scarica pdf CNF n. 177/2023
• Foto: 123rf.com