Anche nei processi per omicidio commesso nei confronti di un familiare o convivente il giudice deve avere la possibilità di valutare caso per caso se diminuire la pena in presenza della circostanza attenuante della provocazione e delle attenuanti generiche. Per cui, è incostituzionale il divieto assoluto per il giudicante di diminuire la pena in presenza di circostanze attenuanti. E' quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 197/2023 (sotto allegata), con la quale è stato dichiarato incostituzionale l'ultimo comma dell'art. 577 del codice penale, introdotto dalla legge n. 69 del 2019 (cosiddetto "codice rosso").
La norma vietava eccezionalmente al giudice di dichiarare prevalenti le due attenuanti rispetto all'aggravante dei rapporti familiari tra autore e vittima dell'omicidio.
La questione era stata sollevata da due ordinanze della Corte d'assise d'appello di Torino e da un'ordinanza della Corte d'assise di Cagliari.
La Corte d'assise d'appello di Torino sta procedendo nei confronti di un giovane, diciottenne al momento del fatto, accusato di avere ucciso il padre in occasione di un ennesimo episodio aggressivo nei confronti propri, della madre e del fratello. La Corte torinese non ritiene - a differenza di quanto stabilito dai giudici in primo grado - che l'imputato abbia agito in legittima difesa, ma gli riconosce varie attenuanti, tra cui la provocazione e le attenuanti generiche.
In un diverso procedimento, la stessa Corte d'assise d'appello deve giudicare della responsabilità penale di una donna che aveva ucciso il marito, autore di reiterati comportamenti violenti e prevaricatori nei confronti propri e del figlio. Anche in questo caso, la Corte esclude la legittima difesa, ma ritiene che all'imputata debbano essere riconosciute, tra l'altro, la provocazione e le attenuanti generiche.
La corte cagliaritana, infine, sta procedendo nei confronti di un uomo, sessantasettenne al momento del fatto, accusato di avere ucciso la moglie sessantenne, in un momento di esasperazione provocato dai continui comportamenti aggressivi della vittima, alcolista e affetta da patologie psichiatriche.
La Consulta ha ritenuto, in particolare, che il divieto posto dalla norma censurata determini una violazione dei principi di parità di trattamento di fronte alla legge, di proporzionalità e individualizzazione della pena sanciti dagli articoli 3 e 27 della Costituzione.
La norma impone infatti al giudice di applicare la stessa pena (l'ergastolo o, in alternativa, la reclusione non inferiore a ventun anni) sia ai più efferati casi di femminicidio, sia a casi come quelli oggetto dei procedimenti principali, caratterizzati da significativi elementi che diminuiscono la colpevolezza degli imputati, e nei quali una pena così severa risulterebbe manifestamente sproporzionata.
La decisione, ha sottolineato la Corte, non contraddice in alcun modo la legittima, ed anzi apprezzabile, finalità del "codice rosso" di intervenire con misure incisive, di natura preventiva e repressiva, contro il drammatico fenomeno della violenza e degli abusi commessi nell'ambito delle relazioni familiari e affettive.
Tuttavia, "l'assolutezza del divieto posto dal legislatore può comportare nei singoli casi risultati contraddittori rispetto a questo scopo, finendo per determinare l'applicazione di pene manifestamente eccessive in situazioni in cui è il soggetto che ha subito per anni comportamenti aggressivi a compiere l'atto omicida, per effetto di una improvvisa perdita di autocontrollo causata dalla serie innumerevole di prevaricazioni cui era stato sottoposto".
In conseguenza di questa decisione, le corti d'assise avranno nuovamente la possibilità di valutare caso per caso se debba essere inflitta la pena dell'ergastolo, prevista in via generale per gli omicidi commessi nei confronti di un familiare o di un convivente, ovvero debba essere applicata una pena più mite, adeguata alla concreta gravità della condotta dell'imputato e al grado della sua colpevolezza.
Scarica pdf Corte Cost. n. 197/2023• Foto: 123rf.com