La condotta lesiva del datore di lavoro
Il caso sottoposto all'autorità giudiziaria aveva riguardato una dipendente che, assieme ad altre somministrate presso una società, era stata vittima di condotte gravemente vessatorie e lesive della sua dignità personale e professionale. In particolare, la responsabile della società aveva operato delle invasioni nella sfera intima e personale della dipendente sempre più gravi ed inaccettabili.
A mero titolo esemplificativo, come emerge dai fatti di causa, alla dipendente venne consegnato un clistere dalla responsabile con l'indicazione di utilizzarlo, le venne inoltre "imposta una dieta ipoglicemica, affinché potesse dimagrire e indossare così una sorta di divisa di taglia media o small"; la responsabile impose inoltre alla dipendente esami ematici e chiese alla stessa "la password per entrare nel data base del laboratorio e prendere visione dei referti con la scusa di darle un consiglio qualora ci fossero state anomalie".
Sempre dalla ricostruzione storica dei fatti, risultava inoltre che "la lavoratrice era stata più volte denigrata in pubblico e rimproverata in malo modo con forti urla" ella era stata altresì "accompagnata in uno stanzino ed ivi trattenuta dalla datrice di lavoro e dalla collega più anziana".
Rispetto agli eventi come sopra narrati, la Corte d'appello di Brescia, adita dalla società, risultata soccombente in primo grado, aveva ritenuto che "tali fatti, se non hanno integrato il mobbing, certamente sono consistiti in plurime condotte illecite, lesive della dignità della dipendente e di fondamentali diritti come quello alla riservatezza e alla privacy", confermando essenzialmente gli esiti cui era giunto, anche sul piano risarcitorio, il Giudice di primo grado.
Avverso la suddetta decisione la società aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione.
Straining nei confronti della lavoratrice
Con ordinanza n. 1124/2024 (sotto allegata), la Suprema Corte ha rigettato il ricorso presentato dalla società, condannando la ricorrente alla refusione delle spese di lite.
La Suprema Corte, dopo aver ripercorso i fatti che hanno caratterizzato il contenzioso in esame, si è in particolare soffermata sull'apparato motivazionale fornito dal Giudice di secondo grado a sostegno delle proprie ragioni e che veniva contestato dalla ricorrente in sede di legittimità.
Sul punto, la Corte ha ritenuto che "i giudici d'appello hanno lungamente motivato in fatto circa la palese violazione dell'obbligo di sicurezza ed hanno citato più volte l'art. 2087 c.c. come norma applicata, posta dal legislatore a protezione della lavoratrice di fronte a condotte (ritenute se non di mobbing, quantomeno di straining) della datrice di lavoro.
A fronte di quest'ampia motivazione, la ricorrente non si confronta in alcun modo con la ratio decidendi, asserendo apoditticamente che i giudici di appello non avrebbero dato «adeguata spiegazione del motivo per il quale i vari comportamenti della (responsabile) avrebbero integrato mobbing o, in subordine, straining».
Sulla scorta di tali ragioni, la Corte ha ritenuto infondato il ricorso presentato dalla società relativamente all'asserita nullità della sentenza per non aver il Giudice di secondo grado osservato ed applicato le norme di diritto regolatrici della fattispecie, nonché per violazione degli artt. 115 e/o 116 c.p.c., per non aver posto a fondamento della decisione le prove offerte dalle parti, nonché i fatti non contestati e le massime d'esperienza.
Scarica pdf Cass. n. 1124/2024• Foto: Foto di Vidmir Raic da Pixabay.com