Le SS.UU. della Cassazione sul rapporto tra messa alla prova e D.lgs. 231/2001
Sinteticamente, l'istituto in parola, disciplinato agli artt. 168 bis e segg. c.p. e dagli art.464 bis e segg. c.p.p., prevede la possibilità per l'imputato di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, che comporta la prestazione di: lavori di pubblica utilità; condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato; ove possibile, il risarcimento del danno. L'esito positivo della messa alla prova, con il rispetto di tutte le prescrizioni impartite, determina l'estinzione del reato.
In tema di responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, regolamentata dal D.Lgs. 231/2001, è sorto un contrasto giurisprudenziale inerente all'ammissibilità della messa alla prova a favore delle persone giuridiche.
Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 14840/2023, hanno risolto (apparentemente") la questione, concludendo per la non ammissibilità dell'istituto a favore degli enti, sostanzialmente spiegando che:
- la natura della responsabilità dell'ente, quale tertium genus rispetto ai tradizionali modelli amministrativo e penale, sarebbe incompatibile con la messa a prova, quest'ultima inquadrabile in un "trattamento sanzionatorio penale" e studiato per essere applicato alla persona fisica (lo dimostrerebbero, ad esempio, la tipologia delle prescrizioni, la valutazione dell'idoneità del programma trattamentale ai sensi dell'art.133 c.p., la prognosi di futura astensione dalla commissioni di reati);
- l'introduzione di un trattamento sanzionatorio - la messa alla prova - ad una categoria di soggetti - gli enti - non espressamente contemplata dalla legge contrasterebbe con il principio di legalità;
- sussisterebbe l'impossibilità di ricorrere all'applicazione per analogia, ancorché in bonam partem, per il rispetto del principio di tassatività della legge penale;
- l'estinzione del reato per esito positivo della m.a.p. non pregiudica l'applicazione delle sanzioni amministrative accessorie (a dimostrazione che le sanzioni diverse da quelle prettamente penali non sono interessate dalla messa alla prova);
- le colpe dell'ente ricadrebbero sugli organi, che sarebbero chiamati a rieducarsi, quindi, per conto di un altro soggetto;
- l'art. 67 D.Lgs 231/2001, nel prevedere le ipotesi di pronunce di non doversi procedere, non richiama quelle di cui all'art.464 septies c.p.p., con il conseguente rischio di dover "creare" una causa estintiva del reato non disciplinata dal decreto.
L'ordinanza del tribunale di Perugia
Il Giudice perugino (nell'ordinanza del 7 febbraio 2024 sotto allegata) non ritiene convincenti le motivazioni addotte dal Supremo Consesso.
In via preliminare, delucida il motivo per cui poter divergere dal principio sancito dalla Sezioni Unite e superare l'ostacolo dello stare decisis. Invero, il tema principale, per il quale era stata adita la Corte nella sua massima composizione, ineriva alla legittimazione del Procuratore Generale di impugnare provvedimenti in ordine di messa alla prova. La questione circa l'ammissibilità della m.a.p. per gli enti era stata affrontata quale tema accessorio.
Chiarito questo fondamentale aspetto, il Tribunale spiega le ragioni per le quali ritiene di pervenire a conclusioni opposte.
La messa alla prova non può essere equiparato sic et simpliciter ad un trattamento sanzionatorio, in quanto trattasi di una autonoma iniziativa dell'imputato che può liberamente decidere, in ogni momento, di non rispettare più le prescrizioni del caso, conscio, tuttavia, che il processo riprenderà il suo corso.
Per quanto concerne il divieto di analogia, ricorda il giudicante, esso opera solo per interpretazioni sfavorevoli all'imputato, mentre è ormai pacifica, anche per la giurisprudenza di legittimità, l'ammissione della interpretazione in bonam partem. Il divieto di analogia penale, ricondotto all'art.25 Cost., non si rivolge all'intera materia penalistica, ma solo alle disposizioni punitive. Ritenendo, dunque, possibile l'interpretazione analogica, essa troverebbe spazio nel campo della cause estintive del reato, superando l'apparente dell'ostacolo di cui all'art. 67 D.Lgs 231/2001.
Evidenzia, poi, il dettame degli artt. 34 e 35 D.Lgs 231/2001, che opera un rinvio alla norme del codice di procedura penale in quanto compatibili: si tratterebbe di un richiamo analogico operato dal medesimo legislatore.
Il Tribunale asserisce che il problema dell'incompatibilità delle norme, a causa della diversità persona fisica/persona giuridica, sia solo illusoria. A ben vedere, l'ente può prestare condotte finalizzate all'eliminazione delle conseguenze dannose derivanti dal reato (si pensi, ad esempio, all'adozione di un idoneo modello di organizzazione e gestione), così come può provvedere al risarcimento del danno.
Stessa conclusione per la prestazione di attività socialmente utili: nel caso di specie l'ente aveva finanziato un corso di formazione a favore di 100 studenti in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro.
La tipologia di programma, infine, prevede un coinvolgimento diretto della società, non contemplando alcuna immedesimazione rovesciata tra ente e organi, dove questi ultimi - si obiettava - sarebbe chiamati a rieducarsi per conto del primo.
Scarica pdf Trib. Perugia 7.2.2024