La Corte, si legge nel comunicato stampa, ha rammentato che il legislatore gode di ampia discrezionalità "nella definizione della propria politica criminale, e in particolare nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati, così come nella stessa selezione delle condotte costitutive di reato". Tuttavia, "discrezionalità non equivale ad arbitrio. Qualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore; e i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità".
Il controllo sul rispetto di questi limiti - prosegue la sentenza - spetta alla Corte costituzionale, che "è tenuta a esercitarlo con tanto maggiore attenzione, quanto più la legge incida sui diritti fondamentali della persona. Il che paradigmaticamente accade rispetto alle leggi penali, che sono sempre suscettibili di incidere, oltre che su vari altri diritti fondamentali, sulla libertà personale dei loro destinatari".
Alla luce di questi principi, la Corte ha osservato che l'aumento della pena minima per l'appropriazione indebita deciso nel 2019 è stato voluto da una legge la cui finalità essenziale era quella di combattere in modo più efficace la corruzione. Come osservato nei lavori preparatori della legge, l'appropriazione indebita di somme societarie può essere in concreto funzionale rispetto a successive pratiche corruttive; il che può spiegare la scelta del legislatore di innalzare la pena massima prevista per il reato dalla soglia di tre anni a quella attuale di cinque anni.
Resta però del tutto oscura la ragione che ha indotto il legislatore a innalzare a due anni la pena minima, che dal 1931 al 2019 era stata pari a quindici giorni di reclusione. Ciò "a fronte del dato di comune esperienza che il delitto di appropriazione indebita comprende condotte di disvalore assai differenziato: produttive ora di danni assai rilevanti alle persone offese, ora (come nel caso oggetto del giudizio a quo) di pregiudizi patrimoniali in definitiva modesti".
E i fatti meno gravi di appropriazione indebita, ai quali deve applicarsi la pena minima, "nella gran maggioranza dei casi nulla hanno a che vedere con condotte prodromiche alla corruzione, e in particolare con la costituzione di 'fondi neri' dai quali poter attingere per tale scopo".
Una pena simile, d'altra parte, appare manifestamente sproporzionata rispetto a quella minima (di sei mesi di reclusione) oggi prevista per un furto e una truffa che, in ipotesi, producano esattamente lo stesso danno patrimoniale di 200 euro. Né potrebbe obiettarsi, ha sottolineato ancora la Corte, che la pena può comunque essere mitigata dalle attenuanti generiche, cui il giudice non deve essere costretto a ricorrere solo per evitare l'inflizione di pene sproporzionate. Così come l'imputato non deve essere spinto a scegliere il patteggiamento o il giudizio abbreviato, rinunciando così a una parte importante delle sue garanzie difensive, soltanto per ottenere uno sconto di pena rispetto a una pena che risulterebbe altrimenti manifestamente eccessiva.
La Corte ha, infine, sottolineato, che il rimedio appropriato alla violazione della Costituzione riscontrata è qui, semplicemente, la cancellazione della pena minima, che resterà così automaticamente fissata in quella prevista in generale dal codice penale per la reclusione, pari appunto a quindici giorni. Resterà poi libero il legislatore di valutare se stabilire un nuovo minimo di pena, nel rispetto del principio di proporzionalità tra gravità del reato e severità della pena
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