Microspia in casa: i fatti
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Un uomo installa una microspia all'interno dell'abitazione coniugale per ascoltare e registrare - anche in sua assenza - i colloqui tra il figlio e la compagna, con la quale è in corso un procedimento per l'affidamento del loro figlio minore, procurandosi così indebitamente notizie attinenti all'intera vita privata della donna. La finalità di tale attività di captazione è di dimostrare la manipolazione del minore da parte della madre e contro il padre. Per quanto precede l'uomo è stato condannato alla pena di 4 mesi di reclusione, oltre al risarcimento del danno. È quindi ricorso per Cassazione.
La tesi difensiva
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I legali dell'uomo, tra le altre cose, hanno eccepito la configurabilità del reato contestato di interferenze illecite nella vita privata previsto dall'articolo 615-bis c.p., giacché secondo loro il delitto in esame non sussiste quando l'autore della condotta è il titolare dell'abitazione in cui viene effettuata la registrazione, perché egli è parte di quella vita privata che la disposizione penale mira a tutelare.
Inoltre, sempre secondo i legali dell'uomo, il loro assistito ha agito in uno stato di necessità, ritenendo il minore in pericolo per il comportamento manipolatorio della madre, e quindi ha agito per fini di tutela del legame padre/figlio e dell'incolumità psicologica del minore.
Reato di interferenze illecite nella vita privata
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La suddetta linea difensiva non ha però trovato accoglimento da parte dei giudici della quinta sezione penale della Corte di Cassazione (sentenza 12713 del 27 marzo 2024 sotto allegata).
Secondo gli stessi, infatti, integra il reato di interferenze illecite nella vita privata di cui all'articolo 615-bis c.p. la condotta di colui che, mediante l'uso di strumenti di captazione visiva o sonora, all'interno della propria dimora carpisca immagini o notizie attinenti alla vita privata di altri soggetti che vi si trovino, sia stabilmente sia occasionalmente, senza esservi in alcun modo partecipe. Il reato, quindi, non si configura se il registrante è presente ed ottiene il consenso degli altri soggetti. Pertanto, soltanto chi partecipa alla scena ritratta o alla conversazione captata, e lo fa con l'assenso degli altri, non può essere autore del reato in questione. In assenza di uno dei due presupposti, il comportamento in questione integra il reato contestato. "Dunque" - scrivono i giudici - "il discrimine tra interferenza illecita e lecita non è dato dalla natura del momento di riservatezza violato, ma dalla circostanza che il soggetto attivo vi sia stato o meno partecipe".
Ugualmente privi di pregio sono le considerazioni riguardanti lo stato di necessità in cui avrebbe agito l'uomo. Infatti, i Giudici scrivono che "nessun grave pregiudizio è stato provato nei confronti del figlio minore, nella sua dimensione di conservazione di un corretto rapporto genitoriale con il padre, anche alla luce della precisazione della Corte di Appello relativa alla circostanza che, nel giudizio civile di separazione, si è disposto l'affido condiviso del piccolo, valutata l'assenza di elementi ostativi".
Per quanto precede è stata confermata la pena inflitta dalla Corte di Appello all'uomo, il quale è stato anche condannato al pagamento delle spese processuali.
Andrea Pedicone
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Scarica pdf Cass. n. 12713/2024• Foto: 123rf.com