"Le espressioni sconvenienti od offensive non sono scriminate dalla provocazione altrui né dalla reciprocità delle offese".
L'avvocato, ha quindi, "il dovere di comportarsi, in ogni situazione (anche nella dimensione privata e non propriamente nell'espletamento dell'attività forense), con la dignità e con il decoro imposti dalla funzione che l'avvocatura svolge nella giurisdizione (art. 5 9 cdf) e deve in ogni caso astenersi dal pronunciare espressioni sconvenienti od offensive (art. 52 cdf), la cui rilevanza deontologica non è peraltro esclusa dalla provocazione altrui, né dalla reciprocità delle offese, né dallo stato d'ira o d'agitazione che da questa dovesse derivare, non trovando applicazione in tale sede l'esimente prevista dall'art. 599 c.p.". Così il Consiglio nazionale Forense nella sentenza n. 107/2024, pubblicata sul sito del Codice deontologico e sotto allegata.
Nel caso di specie, l'avvocato si era rivolto alla propria ex moglie con numerosi appellativi offensivi, tra cui "peripatetica", "avida" e "parassita". In applicazione del principio di cui in massima, il CNF ha rigettato il ricorso dell'incolpato avverso la sanzione disciplinare della censura, irrogatagli dal CDD.
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