La Cassazione è ritornata sul tema del licenziamento nullo, confermando il proprio orientamento in relazione agli elementi che connotano, rispettivamente, il licenziamento ritorsivo e quello discriminatorio

Parallelismo tra le due forme di licenziamento nullo

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La Corte di Cassazione, in una recentissima ordinanza, è ritornata sul tema del licenziamento nullo, confermando il proprio consolidato orientamento in relazione agli elementi che connotano, rispettivamente, le diverse fattispecie del licenziamento ritorsivo e del licenziamento discriminatorio, sia da un punto di vista definitorio sia quanto alle conseguenze sul piano processuale.

Partendo dal singolare caso affrontato dalla Corte nomofilattica nell'ordinanza n. 17267 del 25 giugno 2024 (sotto allegata), è possibile tracciare un parallelismo - teorico e pratico - tra le due forme di licenziamento nullo poc'anzi citate, che vengono spesso accomunate (e talvolta erroneamente sovrapposte), senza tuttavia che se ne conoscano adeguatamente le caratteristiche e peculiarità, come delineate dalla giurisprudenza consolidatasi negli ultimi decenni.

Il caso

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Con la citata ordinanza, i Giudici di Cassazione hanno definito una controversia, proveniente dalla Corte d'Appello di Roma, afferente a un caso di licenziamento per asserita giusta causa, irrogato nei confronti di un infermiere addetto a una casa di cura.

A quest'ultimo era stato infatti contestato di aver tenuto ripetute condotte caratterizzate da grave insubordinazione e negligenza, comportanti la violazione di norme disciplinari e dell'art. 40 del CCNL applicato al rapporto di lavoro, segnatamente consistenti nell'"indossare in servizio monili (vistosa catena a larghe maglie al collo, anelli, un grosso bracciale e un voluminoso orologio tutti di metallo) o acconciature (un lungo pizzetto al mento)" potenzialmente nocivi per la salute degli ospiti delle strutture, in quanto veicolo di contagio per pazienti fragili e immunodeficienti, e tali da "pregiudicare l'immagine della struttura sanitaria".

L'infermiere aveva impugnato il licenziamento, deducendone l'asserita natura discriminatoria (in quanto rappresentante sindacale interno) e ritorsiva. Le sue doglianze venivano tuttavia respinte sia in primo grado che in secondo: i Giudici di merito, infatti, escludevano che il licenziamento si connotasse per tali profili di invalidità, ritenendolo per contro proporzionato alle condotte contestate e accertate, tali da determinare un "irrimediabile vulnus al rapporto fiduciario".

La Corte nomofilattica, adita dal lavoratore, ha confermato le sentenze di merito, ritenendo indimostrata e allegata solo in modo generico la natura discriminatoria del licenziamento, così come quella ritorsiva (che, quand'anche presente, non sarebbe stata esclusiva, stante l'effettiva sussistenza dei comportamenti contestati), cogliendo quindi l'occasione per fare chiarezza - sotto un profilo sia giuridico che fattuale - fra le due fattispecie di nullità del licenziamento congiuntamente invocate dal lavoratore.

Il licenziamento discriminatorio

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Il licenziamento discriminatorio consiste nell'estromissione del lavoratore dal rapporto di lavoro, intimata sulla base di un "elemento differenziante" fra quelli indicati dall'art. 4 L. n. 604/1966, dall'art. 15 L. n. 300/1970, dall'art. 2 D. Lgs. n. 215/2003 e dall'art. 2 D. Lgs. 216/2003, quali, ad esempio, l'appartenenza sindacale, la partecipazione a uno sciopero o ad altra attività sindacale, la presunta "razza" o origine etnica, la religione, il sesso, le convinzioni personali, gli handicap, l'età, la situazione familiare, l'orientamento sessuale, ecc.

Si tratta dunque di un provvedimento datoriale gravemente illecito, in quanto - a prescindere da quale sia la motivazione apparente - è dettato da vere e proprie ragioni di ingiustificabile "odio" nei confronti di una singola persona o di una categoria di persone (c.d. discriminazione collettiva).

Proprio in considerazione di ciò - e, purtroppo, della frequenza con cui si verificano situazioni di questo tipo nella realtà quotidiana - il legislatore ha inteso "facilitare" il lavoratore nella dimostrazione della discriminatorietà del licenziamento.

Come infatti argomentato dalla Corte nella recente ordinanza, "l'art. 40 del d.lgs. 198/2006 (c.d. "Codice delle Pari Opportunità") [...] non stabilisce un'inversione dell'onere probatorio, ma solo un'attenuazione del regime probatorio ordinario in favore del ricorrente, prevedendo a carico del datore di lavoro l'onere di fornire la prova dell'inesistenza della discriminazione [...], ma a condizione che il lavoratore abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori..".

In altre parole, il ricorrente può limitarsi a produrre in giudizio "elementi fattuali che [...] devono rendere plausibile l'esistenza della discriminazione, pur lasciando comunque un margine di incertezza in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi della fattispecie discriminatoria": ciò implica che il rischio dell'incertezza grava esclusivamente sul datore di lavoro, tenuto a dimostrare l'insussistenza della discriminazione lamentata.

Il licenziamento ritorsivo

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Nel caso del licenziamento ritorsivo il provvedimento espulsivo trova la sua ragione in un intento di vendetta o rappresaglia del datore di lavoro in danno del lavoratore, a fronte di un comportamento di quest'ultimo non gradito, ma lecito: chiaramente, è quindi tale specifico elemento che contraddistingue la ritorsività del licenziamento rispetto ad ipotesi - quali il licenziamento per giusta causa - in cui invece la cessazione del rapporto di lavoro costituisce una "risposta" lecita ad un comportamento del lavoratore illegittimo e rilevante sul piano disciplinare.

Inoltre, come ha precisato la Cassazione, affinché possa essere configurabile la nullità di un licenziamento per ritorsione "il motivo illecito addotto, ai sensi dell'art. 1345 c.c., deve essere infatti determinante, ossia costituire l'unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale".

In questo caso, la legge attribuisce alcuna agevolazione sul piano probatorio al lavoratore, che dunque - secondo la disciplina ordinaria - dovrà dimostrare non solo l'esistenza della ritorsione, ma anche che tale la stessa sia la motivazione determinante ed esclusiva a sostegno del licenziamento.

Differenze e punti di contatto

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L'analisi di queste due fattispecie di licenziamento, in considerazione delle osservazioni della Corte di Cassazione nella recente ordinanza, consente di riassumere i profili comuni e le differenze come segue.

Profili comuni:

" sono entrambe ipotesi di nullità del licenziamento. Si tratta, cioè, di provvedimenti direttamente in contrasto con una norma imperativa (a differenza, ad esempio, dell'inefficacia e della illegittimità), in quanto dettati da una motivazione illecita;

" sono entrambe sanzionate, in ogni caso, con la c.d. tutela reintegratoria piena (art. 18 St. Lav.), e quindi con l'obbligo di reintegra nel posto di lavoro a carico del datore, oltre che al risarcimento del danno.

Differenze:

" nel caso del licenziamento discriminatorio, il motivo illecito attiene all'"odio" ingiustificato nei confronti di una singola persona o di una categoria di persone, mentre nel caso del licenziamento ritorsivo il motivo illecito è legato ad un sentimento di vendetta o rappresaglia;

" affinché si possa accertare la natura ritorsiva del licenziamento, occorre che il lavoratore dimostri compiutamente il motivo illecito e il fatto che sia stato esclusivo e determinante; nel caso del licenziamento discriminatorio, invece, il lavoratore è agevolato sul piano probatorio, in quanto può limitarsi a produrre elementi fattuali che rendono plausibile l'esistenza di una discriminazione, gravando sul datore di lavoro il rischio dell'incertezza.


Avv. Francesco Chinni

Avv. Sergio Di Dato

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