L'omesso versamento IVA alla luce dell'entrata in vigore, il 29 giugno 2024, del D.lgs. n. 87/2024

La "vecchia" disposizione...

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Con il recentissimo D.lgs n.87/2024 (in vigore dal 29 giugno 2024), il legislatore ha attuato un'importante revisione del sistema fiscale. Tra i reati che sono stati interessati dall'intervento legislativo, vi è anche l'art.10 ter D.lgs. 74/2000, che disciplina il delitto di omesso versamento IVA.

Fino al 28 giugno scorso, la rubrica in parola così recitava: "È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo, l'imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo di imposta".

La norma ha già conosciuto delle modifiche nel corso degli anni: dall'intervento correttivo della Corte costituzionale (sent. 80/2014), che ne aveva decretato l'illegittimità nella misura in cui fissava la soglia di punibilità sotto gli € 103.291,38 per ciascun anno d'imposta, all'innalzamento della medesima soglia ad € 250.000,00, per mezzo del D.lgs 158/2015.

...e i "vecchi" problemi

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Nonostante il chiaro tenore letterale, avulso da complessi tecnicismi, quindi limpido anche per il profano della materia giuridica, la norma ha sempre celato delle insidie, affrontate dalla giurisprudenza con esiti non propriamente fausti per il contribuente coinvolto.

Invero, è pacifico che la norma punisca la mera omissione. Il legislatore non ha mai specificato che, ai fini della configurabilità del reato, il contribuente debba perseguire la finalità di evasione dell'imposta, essendo sufficiente la sola consapevolezza di non versare il tributo entro il termine stabilito.

Vane sono state le difese, che si sono avvicendate negli anni, volte a giustificare il mancato versamento IVA a causa di fatture non incassate (una circostanza purtroppo ricorrente). La giurisprudenza, specie quella di legittimità, è sempre stata piuttosto univoca sul punto: "Ai fini dell'integrazione del reato di cui all'art. 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000, è sufficiente, quanto all'elemento soggettivo, il dolo generico, configurabile anche nella forma del dolo eventuale, integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, a nulla rilevando i motivi della scelta dell'agente di non versare il tributo; mentre l'inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore, solo quando derivi da fatti non imputabili all'imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico" (Cass. Pen., Sez. III, n.46237/2022).

Le generiche crisi d'imprese non sono di per sé bastevoli per invocare l'impunità, rientrando nel rischio comune che ciascuna partita iva decide di assumersi con l'espletamento dell'attività (Cass. Pen., Sez. III, n.1431/2019); di conseguenza, è onere del contribuente documentare con precisione le cause sopravvenute e a lui non imputabili che hanno determinato il mancato versamento. Circostanza non agevole da dimostrare.

Nonostante quanto sopra, l'art.13 D.Lgs n.74/2000 offre comunque la possibilità di beneficiare di una specifica causa di non punibilità, con il pagamento del debito tributario entro l'apertura del dibattimento (art.13 comma 1), permettendo, altresì, in caso di comprovato piano di rateazione concordato con il Fisco, di chiedere al giudice un termine di tre mesi, prorogabile una volta sola, per saldare il residuo (art. 13 comma 3).

La nuova disposizione...

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Con la recente riforma, il legislatore ha modificato il dettato dell'art.10 ter D.Lgs 74/2000, che ora così dispone: "E' punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il 31 dicembre dell'anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione annuale, l'imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla medesima dichiarazione, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d'imposta, se il debito tributario non è in corso di estinzione mediante rateazione, ai sensi dell'articolo 3-bis del decreto legislativo 18 dicembre 1997,n. 462. In caso di decadenza dal beneficio della rateazione ai sensi dell'articolo 15-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, il colpevole è punito se l'ammontare del debito residuo e' superiore a settantacinquemila euro".

La norma sostanzialmente non muta nella disciplina dell'elemento soggettivo (rimane il dolo generico con la mera omissione) ed oggettivo del reato (mancato versamento dell'imposta superiore ad € 250.000), ma riconosce un valore fondamentale alla rateazione in corso con l'Agenzia delle Entrate. Di fatto, in caso di piano di rientro, la giustizia penale attenderà il relativo esito, non dovendo più imporre il rispetto dei tempi - talvolta troppo stretti - indicati dall' (ormai vecchio) art.13. Qualora, però, il contribuente non dovesse rispettare le scadenze del piano, decadendo dal beneficio, la soglia di punibilità si abbassa: le sanzioni penali vengono irrogate nel caso in cui il debito residuo sia superiore "solo" a € 75.000.

...e i soliti problemi

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Modifiche sono state apposte anche all'art.13, con l'introduzione dei commi 3 bis e 3 ter:

"3 bis. I reati di cui agli articoli 10-bis e 10-ter non sono punibili se il fatto dipende da cause non imputabili all'autore sopravvenute, rispettivamente, all'effettuazione delle ritenute o all'incasso dell'imposta sul valore aggiunto. Ai fini di cui al primo periodo, il giudice tiene conto della crisi non transitoria di liquidità dell'autore dovuta alla inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi o al mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di amministrazioni pubbliche e della non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi."

"3 ter. Ai fini della non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all'articolo 131-bis del codice penale, il giudice valuta, in modo prevalente, uno o più dei seguenti indici: a) l'entità dello scostamento dell'imposta evasa rispetto al valore soglia stabilito ai fini della punibilità; b) salvo quanto previsto al comma 1, l'avvenuto adempimento integrale dell'obbligo di pagamento secondo il piano di rateizzazione concordato con l'amministrazione finanziaria; c) l'entità del debito tributario residuo, quando sia in fase di estinzione mediante rateizzazione; d) la situazione di crisi ai sensi dell'articolo 2, comma1, lettera a), del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14".


A parere di chi scrive, l'intento lodevole del legislatore era quello di offrire un'ulteriore causa di non punibilità al contribuente che non riesce ad effettuare il versamento iva a causa del relativo mancato incasso. Tuttavia, la formula utilizzata pare infelice, in quanto ha introdotto con apposito comma ciò che la giurisprudenza ha ribadito a più riprese: che il mancato incasso iva (e, quindi, il conseguente versamento all'erario) deve dipendere da cause sopravvenute non imputabili all'autore. Non solo, ma ribadisce diversi oneri a carico del contribuente, quali:documentare l'insolvenza o il sovraindebitamento di terzi e la non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi. Di fatto, sembra essere cambiato poco o nulla rispetto a prima.

Nota positiva, invece, per il comma 3 ter, in quanto introduce diversi indici in ausilio al giudice ai fini dell'applicabilità dell'istituto della particolare tenuità del fatto, oltre ai classici e generali parametri già previsti dall'art.131 bis c.p.


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