Le ADR nelle dispute legate all'arte e alla preservazione del patrimonio culturale: "The story of seventeen tasmanians"

Diritto dell'arte

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Il diritto dell'arte è un ambito che comprende diverse discipline giuridiche che regolano e proteggono l'uso, la creazione e il mercato dell'arte, strettamente correlato, e frequentemente sovrapposto, al diritto del patrimonio culturale, che norma e salvaguarda materiali culturalmente significativi, quali artefatti storici, opere d'arte e patrimoni culturali immateriali, che devono avere una particolare importanza per un gruppo o una popolazione definita, indipendentemente dal fatto che tale gruppo sia investito di un interesse di proprietà tradizionale. Entrambi possono dare origine a una vasta gamma di dispute che ineriscono ai diritti morali, alla catena di titolarità, alla restituzione, al repatriamento, all'acquisizione, alla donazione, al prestito e al deposito, all'assicurazione, all'arte come garanzia nelle transazioni, alla digitalizzazione, all'appropriazione indebita delle espressioni culturali tradizionali ed altro ancora. Le controversie spesso coinvolgono questioni complesse e sensibili che vanno al di là delle mere questioni legali: di natura emotiva, culturale, etica, politica, storica, religiosa o spirituale, così come leggi e protocolli consuetudinari.

Negli ultimi anni è emerso un forte consenso riguardo ai benefici delle ADR nella risoluzione delle dispute artistiche e del patrimonio culturale che, per loro stessa natura, hanno spesso un carattere transnazionale, sono complesse e richiedono sia competenze legali che conoscenze specifiche. Attraverso le ADR, le parti possono scegliere un mediatore o un arbitro con la necessaria competenza tecnica per gestire correttamente e, soprattutto, comprendere la questione dell'arte o del patrimonio culturale in gioco, aspetto particolarmente sensibile nei casi che coinvolgono parti provenienti da diversi contesti culturali.[1]

Attori, questioni e complessità

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Le dispute nel campo dell'arte e del patrimonio culturale coinvolgono una vasta gamma di soggetti, portatori di interessi diversificati e prospettive uniche, che contribuiscono alla complessità delle controversie che possono insorgere. Antropologi, coinvolti nella ricerca e nella comprensione delle pratiche culturali e delle tradizioni associate; archivisti, responsabili della conservazione e della gestione dei documenti storici e delle informazioni relative alle opere d'arte e al patrimonio culturale; commercianti d'arte e antiquariato; artisti, i creatori delle opere d'arte, spesso al centro di controversie riguardanti la proprietà intellettuale, l'autenticità e l'uso delle loro opere; società di gestione collettiva dei diritti, organizzazioni che rappresentano gli artisti e gestiscono i diritti d'autore per le loro opere; case d'asta, enti che organizzano le vendite all'asta di opere d'arte e oggetti di valore culturale; collezionisti; istituzioni culturali, quali musei, gallerie d'arte, biblioteche e altri enti responsabili della conservazione, esposizione e fruizione pubblica delle opere d'arte e del patrimonio culturale; distributori di opere d'arte e di materiali culturali, inclusi prodotti di artigianato e souvenir; esperti d'arte, professionisti con competenze specializzate nella valutazione, autenticazione e conservazione delle opere d'arte; gallerie, spazi espositivi e commerciali dedicati alla promozione e alla vendita di opere d'arte; comunità indigene, gruppi etnici e culturali che rivendicano diritti su opere d'arte e oggetti culturali tradizionali, spesso interessati alla restituzione e alla gestione del loro patrimonio culturale; individui, proprietari, creatori o acquirenti di opere d'arte e materiali culturali; industrie per la produzione di materiali utilizzati nell'arte e nel patrimonio culturale, quali fornitori di materiali artistici o tecnologie di conservazione; editori che pubblicano materiale accademico, cataloghi e libri d'arte; governi nazionali e locali responsabili della regolamentazione, della legislazione e della protezione del patrimonio culturale all'interno dei loro confini; istituzioni accademiche per la ricerca, l'insegnamento e la promozione della conoscenza nel campo dell'arte e del patrimonio culturale.

Le dispute contrattuali possono sorgere in merito ad accordi di rappresentanza degli artisti, licenze e cessioni di diritti d'autore, accordi di donazione, prestito e vendita. Le dispute non contrattuali possono riguardare l'accesso e la condivisione dei benefici delle espressioni culturali tradizionali (Traditional Cultural Expressions, TCEs) e/o del sapere tradizionale (Traditional Knowledge, TK), l'autenticità, il controllo su un'opera o un oggetto culturale, la digitalizzazione, la documentazione, i diritti di rivendita, la restituzione, la rappresentazione e l'uso non autorizzato. Il sapere tradizionale è conoscenza, saper fare, abilità e pratiche che si sviluppano, si mantengono e si tramandano di generazione in generazione all'interno di una comunità, spesso facendo parte della sua identità culturale o spirituale. Le espressioni culturali tradizionali, anche chiamate "espressioni del folklore", possono includere musica, danza, arte, disegni, nomi, segni e simboli, performance, cerimonie, forme architettoniche, artigianato, narrazioni o molte altre espressioni artistiche o culturali. Sono considerate forme attraverso cui la cultura tradizionale si esprime. Sono parte dell'identità e del patrimonio di una comunità tradizionale o indigena, e vengono tramandate di generazione in generazione. Incorporano saperi e competenze, e trasmettono valori e credenze. La loro tutela è legata alla promozione della creatività, all'incremento della diversità culturale e alla conservazione del patrimonio culturale.[2]

Il caso dei diciassette Tasmaniani: proprietà culturale e repatriation

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Dagli anni '80, il Tasmanian Aboriginal Centre (TAC), fondato nel 1973 per rappresentare e difendere gli interessi degli aborigeni tasmaniani, aveva avanzato numerose richieste al Natural History Museum (NHM) di Londra per la restituzione di 17 resti umani aborigeni conservati nella collezione del museo. Tuttavia, le loro istanze erano state ripetutamente rifiutate. Il TAC sosteneva che i resti non appartenevano al Regno Unito e che dovevano essere restituiti alla loro comunità per consentire di: "Put to rest in a traditional ceremony conducted by Aboriginal people the spirits of our ancestors who were disinterred from burial grounds or killed in the bush". Si trattava di 16 adulti e un ragazzo: quattro degli adulti identificati come donne, tre come uomini, sconosciuto il sesso dei restanti nove. Nel corso degli anni, numerosi erano stati i tentativi di negoziare il repatriation dei resti, attraverso vie diplomatiche e legali. Quando la controversia venne portata avanti l'Alta Corte di Londra, il giudice suggerì di procedere con la mediazione.

Durante il periodo del colonialismo europeo in Australia, XIX secolo e inizio del XX, si era sviluppato un interesse crescente per la raccolta e lo studio degli oggetti e dei resti umani delle popolazioni indigene; molti resti umani di aborigeni tasmaniani furono rimossi dalle loro sepolture e portati in vari musei e istituzioni scientifiche in tutto il mondo. Tale pratica faceva parte di un più ampio fenomeno di collezionismo e studio antropologico dell'epoca. Tra le figure chiave, George Augustus Robinson (1791-1866), funzionario britannico e predicatore autodidatta, arrivato in Australia nel 1824. Nel 1830, stabilitosi come Chief Protector of Aborigines nella colonia della Terra di Van Diemen, nome originariamente dato dagli europei all'odierna Tasmania, si adoperò per proteggere gli interessi degli aborigeni dalle incursioni dei coloni, cercando di integrarli nella società coloniale. Mentre ci fu chi lo vide come un umanitario che cercava di proteggerli, altri lo accusarono di favorire i coloni e di essere uno "strumento" della politica coloniale. Negli anni della sua permanenza, Robinson raccolse un gran numero di oggetti e opere d'arte dalle comunità aborigene locali, collezionando crani e altri resti umani aborigeni che, dopo la sua morte, vennero venduti dalla moglie Rose a diversi musei. Dalla "collezione" di Robinson fino alle disattese richieste del TAC, la questione dei resti umani aborigeni è rimasta al centro del dibattito pubblico e della lotta per il ritorno e il rispetto dei diritti indigeni.

Le questioni legali inerivano a quali diritti di proprietà potevano esistere sui resti umani, al diritto legale alla sepoltura, ai requisiti legali relativi alla conduzione di test su tessuti umani e al repatriation. La proposta iniziale dei fiduciari del Museo per un ritorno dei resti umani dopo test scientifici mirava a trovare un equilibrio tra ciò che i fiduciari consideravano "Due opinioni molto diverse su ciò che era giusto fare". Da un lato, il NHM considerava il ritorno dei resti al paese d'origine; dall'altro, l'utilizzo di questa risorsa, inestimabile e unica, per la ricerca scientifica. I fiduciari erano determinati ad estrarre campioni di DNA dai resti poiché "Rappresentavano una popolazione umana di un periodo in cui la Tasmania era isolata dal resto del mondo e queste informazioni scientifiche raccolte potevano consentire alle generazioni future di comprendere meglio come avevano vissuto i loro antenati, da dove provenivano e fornire un capitolo affascinante nella storia di ciò che significa essere umani". Al contempo, i fiduciari del museo riconoscevano che i resti erano stati illegalmente prelevati dagli aborigeni tasmaniani, creando così il presupposto per il loro ritorno. In vista di un lungo processo e dell'aumento dei costi legali, il CdA del museo aveva accettato di procedere mediante un procedimento mediazione, come suggerito dal giudice dell'Alta Corte. Il museo perseguiva interessi scientifici, considerando fondamentale la raccolta di dati e la conservazione del materiale genetico per future ricerche. Secondo le tradizioni tasmaniane, gli aborigeni desideravano invece che i resti fossero conservati e non desideravano "Alcuna interferenza fisica con i resti e nessuna futura profanazione". L'11 maggio 2007, dopo una sessione di mediazione durata tre giorni, durante la quale il TAC e il NHM avevano concordato congiuntamente l'estensione delle indagini scientifiche permesse sui resti umani prima del loro ritorno, vi fu l'annuncio ufficiale dell'accordo raggiunto e tre giorni più tardi il loro repatriation in Tasmania. La mediazione si era conclusa con un compromesso mutualmente accettabile: gli aborigeni riconoscevano l'importanza per il museo di conservare il DNA fino ad allora raccolto e gli scienziati del NHM, a loro volta, concordavano che i resti e tutta la documentazione pertinente dovessero essere affidati a una struttura medica in Tasmania.[3]

Conclusioni

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Il caso dei diciassette tasmaniani rappresenta un esempio dell'efficacia delle ADR nella risoluzione delle dispute nell'arte e nel patrimonio culturale. Facilitando il confronto tra le parti e la comprensione delle reciproche posizioni, la mediazione ha consentito di raggiungere un accordo che ha rappresentato un equilibrio delicato tra il perseguimento degli interessi scientifici del NHM e il rispetto per i valori spirituali e culturali profondamente radicati nelle comunità aborigene. La conservazione di parte del materiale in Tasmania, sotto il controllo congiunto del TAC e del Museo, anziché la semplice sepoltura, ha riflesso un compromesso che ha cercato di onorare gli aspetti multidimensionali della vicenda, sottolineando come tradizioni, leggi consuetudinarie e altri elementi siano una parte essenziale della proprietà culturale.

Dott.ssa Luisa Claudia Tessore


Note bibliografiche

[1] Cornu, M. & Renold, M.A. (2010) New Developments in the Restitution of Cultural Property, Alternative Means of Dispute Resolution. International Journal of Cultural Property 17: 1-31.

[2] Byrne-Sutton, Q. (1998) Arbitration and Mediation in Art-Related Disputes, Arbitration International, Volume 14, Number 4, pp. 447 - 455

[3] Davies, C. & Kate Galloway, K. (2008-9) The Story of Seventeen Tasmanians: The Tasmanian Aboriginal Centre and Repatriation from the Natural History Museum. New Law Review 11: 143 - 165


Foto: 123rf.com
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