Tanti anni or sono l'avvocato era definito leguleio, talvolta azzeccagarbugli. E' arrivata la crescita sociale, pare si dica così, l'avvocato ed ogni professionista in genere è diventato, senza offesa, un ragioniere: obbligo della tenuta di onerose scritture contabili e assicurazioni professionali pagate a caro prezzo. il passato non è tramontato si è solo aggravato, caricando ogni professionista di enormi fardelli. il segreto della giustizia sta in una sempre maggior lotta tra professionisti e giudici nella lotta contro le carte, anche quelle smart (intelligenti), che non sono assicurate. Di questi tempi i professionisti non possono permettersi il lusso neppure di essere malati! Eppure, qui ci sono in gioco gli interessi dei clienti e i termini che scadono. E così, per esempio, l'avvocato che ha mal denti, li stringerà più forte, ha detto la giurisprudenza. Bisognerebbe ricordare che i professionisti di norma, non sono meri birboni, ma anime sofferenti innanzi al cliente e in particolare innanzi al giudice, ma abbiamo più assicurazioni dalle responsabilità professionali che dal dolore umano.
I controversi limiti della responsabilità professionale
La responsabilità del professionista, in particolare del consulente fiscale, è un tema complesso e controverso. Nonostante sia chiaro che i professionisti possano essere coinvolti in pianificazioni fiscali aggressive, i confini della consulenza lecita non sono ben definiti nel nostro ordinamento giuridico. Questo crea incertezza sui limiti entro cui un professionista può operare senza incorrere in reati tributari. La vasta giurisprudenza in materia ne è una prova evidente.
L'analisi delle sentenze della Corte di Cassazione evidenzia vari casi in cui i professionisti sono stati accusati di:
- Riciclaggio di beni provenienti da evasione fiscale per aver organizzato investimenti all'estero.
- Favoreggiamento per aver creato apparenti rapporti commerciali al fine di aiutare clienti a nascondere reati tributari.
- Associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati di evasione.
- Corruzione in atti giudiziari per aver influenzato processi tributari.
Questi esempi dimostrano la necessità di attenersi ai principi fondamentali per individuare l'ambito legittimo di azione del consulente, evitando di sconfinare nell'illecito tributario. Il legislatore ha introdotto severe sanzioni per scoraggiare comportamenti illeciti da parte dei professionisti infedeli. Nel diritto tributario, caratterizzato da elevato tecnicismo, i reati sono spesso commessi da professionisti esperti che assecondano intenti criminali dei loro assistiti. La dottrina considera quasi tutti i reati tributari previsti dal d.lgs. 74/2000 come reati propri, realizzabili solo da chi ha obblighi di dichiarazione o versamento. La giurisprudenza ha trattato, per esempio, la responsabilità del professionista consulente fiscale:
1. La Cassazione con sentenza n. 4383 del 10 dicembre 2013 ha affermato che il consulente fiscale può essere partecipe all'evasione di imposte suggerendo modalità per aggirare le normative, ma non può essergli ascritta responsabilità penale senza la prova della consapevolezza e dell'intenzione di partecipare all'evasione fiscale;
2. Con la sentenza n. 26369 del 2014 la Cassazione ha ampliato la responsabilità del notaio in materia fiscale, affermando che rientra tra le responsabilità di quest'ultimo anche il fornire consulenza sugli aspetti fiscali accessori alla stipula di atti di compravendita, trattandosi di questioni tecniche che una persona non dotata di competenza specifica non sarebbe in grado di percepire. La Corte ha sottolineato che il notaio deve agire come un vero e proprio consulente delle parti, dotato di una diligenza qualificata che include la consulenza fiscale. Questo significa che il notaio deve informare il cliente delle conseguenze fiscali degli atti che sta stipulando. Questo obbligo trova fondamento nell'incarico professionale ricevuto di redigere l'atto pubblico, da cui discende la sua responsabilità per danni originati da un comportamento negligente, anche in caso di colpa lieve. Questo include, quindi, anche la responsabilità per errori nella compilazione delle dichiarazioni fiscali relative agli atti di compravendita. La responsabilità del notaio per la consulenza fiscale fornita è limitata alle conoscenze che devono far parte del suo normale bagaglio quale professionista, che opera nel campo della contrattazione immobiliare;
3. Con la sentenza n. 14247 del 8 luglio 2020 la Corte ha esaminato attentamente il ruolo e le responsabilità del consulente che forniva assistenza e consulenza in materia fiscale e lavorativa. La società Tecnoverde aveva richiesto il riconoscimento della responsabilità professionale dei convenuti per aver suggerito la conclusione di due contratti di lavoro a progetto, predisposti senza i requisiti di legge, esponendo così Tecnoverde al pagamento di sanzioni all'INPS per un totale di 22.380,53 euro. Il Tribunale di Savona aveva accolto la domanda di Tecnoverde, ma la Corte d'Appello di Genova aveva successivamente riformato questa decisione, dichiarando la nullità del rapporto contrattuale intercorso tra le parti. «La Corte di Cassazione ha stabilito che l'attività di assistenza e consulenza in materia fiscale e del lavoro non è riservata esclusivamente agli iscritti negli ordini professionali». Questo significa che anche coloro che non sono membri di un ordine professionale possono legalmente offrire tali servizi, purché rispettino le normative vigenti e mantengano un elevato standard di competenza e professionalità. Questa decisione, quindi, mentre da un lato sottolinea l'importanza della competenza e della professionalità per chiunque offra servizi di consulenza fiscale e lavorativa, indipendentemente dall'appartenenza a un ordine professionale, dall'altro evidenzia che la mancanza di iscrizione a un ordine professionale non esonera il consulente dalle responsabilità legali e professionali derivanti dalla sua attività;
4. Con la sentenza n. 26294 del 20 luglio 2021 la Corte ha stabilito che un consulente del CAF, non iscritto all'albo, non risponde di esercizio abusivo della professione. Il caso riguardava un consulente che, in qualità di legale rappresentante di un Centro Servizi Terziario (CTS), che forniva servizi di consulenza fiscale e lavorativa senza essere iscritto all'albo professionale. La Corte ha esaminato se tale attività potesse configurarsi come esercizio abusivo della professione ai sensi dell'art. 348 del codice penale. La Corte ha concluso che l'attività di consulenza svolta dai centri di assistenza fiscale non rientra nella fattispecie di reato prevista dall'art. 348 c.p., poiché la legge prevede una deroga al regime obbligatorio dell'albo professionale per le piccole imprese e le imprese artigiane. Come evidenziato dai giudici, l'interpretazione della normativa deve tenere conto dell'intento legislativo di agevolare le piccole imprese e le imprese artigiane, riducendo i costi di gestione dei relativi servizi.
Per quanto non sia revocabile in dubbio il concorso del professionista in alcune ipotesi di pianificazioni fiscali aggressive, è altrettanto certo che nel nostro ordinamento giuridico non sono chiari i confini della lecita consulenza. In sostanza non vi sono paletti che delimitano in maniera ragionevolmente rassicurante i limiti entro cui il professionista può svolgere la propria attività senza incappare in un reato tributario. L'ampia casistica giurisprudenziale ne è una prova incontrovertibile (R. Schiavolin, La Responsabilità Penale del Professionista rass. Trib. 2/2015).
L'ambito di azione del professionista
L'esame della giurisprudenza fa emergere a carico di professionisti a titolo meramente esemplificativo: accuse di riciclaggio di beni provenienti da evasione fiscale per avere organizzato investimenti all'estero; favoreggiamento per aver creato un'apparenza di rapporti commerciali onde aiutare un cliente che aveva commesso dei reati tributari per evitare che venissero scoperti; associazione per delinquere finalizzata alla commissione di una serie di delitti di evasione; corruzione in atti giudiziari per avere influito sui processi tributari. Le fattispecie, come abbiamo visto, sono così numerose che si rende necessario attenersi ai principi fondamentali per cercare di individuare qual è l'ambito di azione legittimo del consulente prima di sconfinare nel terreno dell'illecito tributario. Il legislatore, come abbiamo già anticipato, ritenendo che il consulente abbia spesso ideato una pianificazione fiscale aggressiva ha ritenuto di introdurre nel nostro ordinamento giuridico un severo deterrente sanzionatorio inteso ad estirpare i comportamenti illeciti di professionisti infedeli. Nella materia del diritto tributario, caratterizzata da elevato tecnicismo, gli artifici delittuosi sono sovente realizzati da professionisti esperti che assecondano gli intenti criminali dei loro assistiti. Preliminarmente va osservato che la dottrina considera quasi tutti i reati tributari previsti dal d.lgs. 74/2000 come reati propri cioè come reati che al di là della terminologia utilizzata dal legislatore, che nella formulazione delle diverse fattispecie si riferisce a chiunque, questi delitti possono essere realizzati soltanto dai soggetti che hanno il dovere di dichiarazione o di versamento (L. Trombella, La Responsabilità del consulente in Trattato di Diritto Sanzionatorio tributario). La dottrina Penal-tributaria considera appartenente alla categoria dei reati propri tutti i delitti di cui al D. Lgs. 10/3/2000 n. 74 fatta eccezione per quelli disciplinati dall'art. 8, volto a punire l'emissione di fatture per operazioni inesistenti e dall'art. 10, volto, invece, a punire l'occultamento o la distruzione delle scritture contabili.
Se ci attenessimo a questa prima lettura si dovrebbe sostenere che il consulente è sempre estraneo al reato, ma che potrebbe essere chiamato a rispondervi soltanto a titolo di concorrente. Il problema è in realtà decisamente più articolato. Nell'ipotesi, per esempio, di reati dichiarativi si è sostenuta la tesi che il contribuente, firmando la dichiarazione, fa proprio il contenuto della stessa escludendo un'eventuale responsabilità in capo al consulente. Una dottrina più attenta ha fatto notare che l'art. 1 del decreto del 2000 prevede che le dichiarazioni possono essere presentate da amministratori, liquidatori o da semplici persone fisiche che agiscano nella veste di rappresentante. Pertanto, nell'ipotesi in cui il professionista abbia assunto la qualità di rappresentante negoziale del contribuente e presenti una dichiarazione fraudolente o infedele non è possibile escluderne la sua responsabilità. Il problema in verità permane anche nell'ipotesi in cui il contribuente firmi personalmente la dichiarazione il cui contenuto è stato elaborato dal professionista nella logica di favorire i risparmi d'imposta esplicitamente o implicitamente richiesti dal suo assistito. In detta ipotesi il professionista potrebbe essere accusato nel ruolo di concorrente nel reato. In ultima analisi le due conclusioni alle quali è pervenuta la giurisprudenza appaiono sostanzialmente condivisibili: nel primo caso perché il contribuente ha sì fatto propria la dichiarazione, ma sostanzialmente subordinandola ad un indebito risparmio d'imposta; nel secondo caso il professionista agisce come rappresentante negoziale, e sarebbe illogico che andasse incontro all'esonero da responsabilità per avere agito in nome e per conto del soggetto obbligato a presentare in proprio la dichiarazione. La fattispecie è totalmente differente nell'ipotesi in cui il consulente non abbia prestato assistenza a nessun titolo al suo assistito, ma si sia limitato esclusivamente a svolgere una funzione di mero nuncio. Questa interpretazione rappresenta la chiusura del sistema (R. Schiavolin, La Responsabilità Penale del Professionista, in Rass. Trib. 2/2015).
L'interpretazione evita che soggetti che abbiano dato un apporto causale a reato tributario vadano esenti da responsabilità. Il problema è radicalmente differente nell'ipotesi di omessa dichiarazione per la quale la giurisprudenza ha ritenuto che non venga mai meno la responsabilità del contribuente, che abbia delegato il dovere dichiarativo ad un terzo inadempiente (Corte di Cassazione sez. III 8/3/201 n. 9163). La dottrina non condivide la posizione della giurisprudenza della corte di Cassazione che, in modo apodittico, ritiene come il contribuente non possa mai andare esente da responsabilità. Pur condividendo la tesi che individua in capo al terzo delegato la responsabilità penale per l'omessa presentazione della dichiarazione si ritiene che sia sostanzialmente condividibile l'indirizzo giurisprudenziale della Corte di Cassazione che ritiene che sussista in ogni caso in capo al contribuente la responsabilità per l'omessa dichiarazione da parte del consulente. Del resto, tutte le circolari amministrative emanate dall'Agenzia delle Entrate a tutela dell'esatto adempimento della presentazione della dichiarazione (ad esempio l'impegno del consulente a consegnare copia al suo cliente di avvenuta trasmissione della dichiarazione, con allegata copia della comunicazione di ricezione) comprova il dovere del contribuente di verificare che il proprio professionista abbia adempiuto al dovere di trasmettere telematicamente la propria dichiarazione. Si potrebbe invero obbiettare, come fa parte della dottrina, che il contribuente, non recandosi presso il suo consulente per ottenere copia della dichiarazione e relativa ricevuta di trasmissione, versi in un'ipotesi di colpa non idonea a configurare la fattispecie delittuosa di omessa dichiarazione, ma si omette di considerare altre due ipotesi: l'ipotesi del dolo eventuale che il soggetto abbia consapevolmente agito sapendo che la dichiarazione potrebbe non essere stata trasmessa; che il contribuente abbia raggiunto un accordo con un professionista non trasparente al fine di cercare di trasformare un'ipotesi delittuosa in una mera negligenza. Diversa è invece l'ipotesi considerata dalla dottrina (L. Trombella, La Responsabilità del Consulente in Trattato Diritto Sanzionatorio Tributario): ovvero, del consulente che consegna al suo assistito una dichiarazione ed una nota di trasmissione falsa, non potendosi ravvisare né il comportamento del contribuente, né l'elemento psicologico, né il nesso di causalità. È ovvio invece che permane la responsabilità quale obbligato del professionista. Ovviamente non può escludersi un concorso nel reato del contribuente con il consulente se il primo avesse conferito un incarico simulato con l'accordo di non eseguirlo. Per quanto attiene l'ipotesi di emissione di fatture per operazioni inesistenti finalizzata a consentire a terzi l'evasione, detto reato previsto dall'art. 8 del D. Lgs. N. 74/2000 è configurabile in capo al professionista che emetta personalmente fatture false al fine di consentire al proprio cliente l'evasione d'imposta. Questo reato potrebbe evidentemente concorrere con quello di dichiarazione fraudolenta quando l'emissione di fatture fittizie costituisca uno dei servizi offerti dal consulente al proprio assistito. Ai fini della configurabilità del reato da parte del consulente il concetto che la formazione di fatture false sia inclusa nel servizio deve essere inteso in senso lato in quanto non necessariamente il vantaggio deve essere strettamente economico. Agli albori dell'entrata in vigore del d.lgs. 74/2000 occupò le prime pagine della cronaca giudiziaria la fattispecie del professionista che alimentava la propria clientela mediante risparmi d'imposta "formalmente" legittimi per i propri assistiti ignari dell'operazione fraudolenta. Il professionista formava fatture false a nome di alcuni assistiti a vantaggio di altri al fine di pianificare il carico fiscale. In tale fattispecie si ritiene che il professionista rispondesse sia del reato di cui all'art. 8 del d.lgs. 74/2000, emissione di fatture false sia del reato di cui all'art. 2 del d.lgs. 74/2000, dichiarazione fraudolenta. Ovviamente in presenza di prova della consapevolezza degli assistiti il professionista avrebbe risposto del reato di formazione di fatture false in concorso con gli assistiti per dichiarazione fraudolenta ed utilizzazione di fatture fittizie (Cass. sez. penale 12/72/2001 n. 2056/28341, Cass. penale 1/10/2010 n. 35453). Ovviamente il concorso nel reato da parte del consulente è configurabile anche nell'ipotesi di distruzione di documenti se questi abbia istigato il proprio cliente cioè se abbia avuto un ruolo nella vicenda. Anche con riferimento all'ipotesi di sottrazione fraudolenta al pagamento d'imposta appare improbabile che si possa configurare il reato del consulente non avendo questo di regola potere dispositivo del patrimonio, ma è configurabile il reato di concorso nell'ipotesi in cui il professionista abbia avuto un ruolo anche mediante il suggerimento di espedienti nella sottrazione di beni. È configurabile invece il reato del professionista nell'ipotesi di false informazioni fornite in sede di transazioni fiscali o in sede di concordato preventivo. Il tecnicismo dei due istituti impone una particolare attenzione proprio sul ruolo del consulente.
Punizione rafforzata per un ruolo fondamentale
Abbiamo esordito mettendo in evidenza il ruolo fondamentale che il professionista per le sue conoscenze tecniche può avere nella realizzazione di pianificazione aggressiva rafforzando da un lato il dolo del cliente e dall'altro lato creando ostacoli insormontabili all'attività di accertamento. Questa conclusione ha indotto il legislatore ad introdurre al comma 3 dell'art. 13 bis del D.lgs. n. 74/2000 una circostanza aggravante ad effetto speciale quando il reato fiscale è stato commesso da particolari compartecipi nell'esercizio dell'attività di consulenza fiscale. In parole semplici il contributo del consulente fiscale contempla una punizione rafforzata con aumento della pena della metà (Cass. relazione n. III/05/2015). La norma crea due ordini di problemi:
- la legittimità costituzionale della disposizione;
- la mancanza di determinazione della disposizione.
Con riferimento al primo punto si osserva che la norma è a rischio di incostituzionalità in quanto non contenuta nella legge delega, che contiene solo un generico riferimento ad una migliore articolazione del sistema punitivo tributario. L'art. 8 della legge n. 23/2014 delegava «il governo a procedere con i decreti legislativi di cui all'art. 1, alla revisione del sistema penale tributario secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità di comportamento, prevedendo la punibilità con la pena detentiva compresa fra un minimo di sei mesi e un massimo di tre anni, dando rilievo, tenuto conto di adeguate soglie di punibilità alla configurazione del reato e di comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all'utilizzo di documentazione falsa, per i quali non possono comunque essere ridotte le pene minime previste dalla legislazione vigente alla data di entrata in vigore del D.L. 13/08/2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla l. 14/09/2011. n. 148 l'individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e di evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie; l'efficacia attenuante o esimente dell'adesione alle forme di comunicazione e cooperazione rafforzata di cui all'art. 6, comma 1; la revisione del regime della dichiarazione infedele e del sistema sanzionatorio amministrativo al fino di meglio correlare, nel rispetto del principio di proporzionalità le sanzioni all'effettiva gravità dei comportamenti; la possibilità di ridurre le sanzioni per le fattispecie meno gravi o di applicare sanzioni amministrative anziché legali tenuità anche conto di adeguate soglie di punibilità; l'estensione della possibilità per l'autorità giudiziaria di affidare in custodia giudiziale i beni sequestrati nell'ambito di procedimenti penali relativi a debiti tributari agli organi dell'amministrazione finanziaria che ne facciano richiesta al fine di utilizzarli direttamente per le proprio esigenze operative.»
Il principio non pare sufficiente a giustificare l'introduzione dell'aggravante per il professionista. In ogni caso il problema più grave sollevato dalla stessa giurisprudenza è che non appare individuata con sufficiente precisione la categoria dei professionisti che svolgono attività di consulenza fiscale da far rientrare nell'aggravante di cui in parola. La mancanza di determinazione è ancora più grave se si considera che il legislatore riconnette il reato all'elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale, essendo un'espressione assolutamente ambigua quella utilizzata dal legislatore inoltre sarebbe estremamente pericolosa per la certezza del diritto se l'espressione elaborazione e commercializzazione di modelli fiscali dovesse essere riempito di contenuto dalla giurisprudenza. La dottrina nel timore di un proliferare di procedimenti a carico del consulente fiscale e a carico del contribuente per l'applicazione della circostanza aggravante di cui all'art. 13 bis è pervenuta alla conclusione che detta aggravante è estensibile soltanto a chi abbia consapevolezza delle capacità tecniche del proprio professionista e che questi sta ideando o commercializzando un pacchetto fiscale di pianificazione aggressiva. Solo in questa circostanza il contribuente concorrente nel reato commesso dal consulente tributario può vedersi applicata l'aggravante di cui al citato art. 13 bis. La Corte di Cassazione, nella sentenza del 14/11/2017, si è pronunciata sulla nuova circostanza aggravante ampliando la portata del requisito soggettivo: la nozione di professionista è «comprensiva di chiunque nell'esercizio della professione svolge l'attività di consulenza fiscale (commercialista, consulente, avvocati e così via)». La Cassazione si distanzia dall'interpretazione di professionista che aveva dato l'Agenzia delle Entrate che riteneva riferirsi esclusivamente al soggetto abilitato alla presentazione della dichiarazione. Per quanto riguarda il profilo oggettivo della norma la Cassazione all'espressione elaborazione o commercializzazione di modelli di evasione attribuisce un carattere di abitualità e ripetitività. In sintesi La Corte di Cassazione enuncia il seguente principio di diritto «in tema di reati tributari, ai fini della configurabilità dell'aggravante nel caso in cui il reato è commesso dal concorrente nell'esercizio dell'attività di consulenza fiscale svolta da un professionista o da un intermediario finanziario o bancario attraverso l'elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale, è richiesta una particolare modalità della condotta ovvero sia la serialità che, seppur non prevista espressamente nell'articolo, è desumibile dall'allocazione, elaborazione o commercializzazione di modelli di evasione rappresentativa di una certa abitualità e ripetitività della condotta incriminata».
Infine, il massimario della Corte di Cassazione sembra aderire, come già anticipato, alla questione della circostanza aggravante agli altri correi e quindi al contribuente che questo abbia consapevolezza dei requisiti tipizzati dall'ultimo comma dell'art. 13 bis.
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