La teoria degli atti linguistici (J.L. Austin 1962 - How to do things with words): argomentazione e negoziazione nella mediazione dei conflitti

La teoria degli atti linguistici

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La teoria degli atti linguistici, o Speech-Act Theory, sviluppata dal filosofo inglese J.L. Austin (1911-1960) e pubblicata postuma nel 1962 nell'opera How to Do Things With Words, ha profondamente influenzato la linguistica pragmatica e la filosofia del linguaggio ordinario, con un approccio di analisi del linguaggio non solo come mezzo per comunicare informazioni, ma anche quale strumento per compiere azioni.

Le tre tipologie di atti linguistici

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Austin distingue tre tipi di atti linguistici: gli atti locutori, che si riferiscono all'atto di pronunciare un enunciato con un significato e una struttura grammaticale specifica; gli atti illocutori, che riguardano le intenzioni comunicative dietro l'enunciato; e gli atti perlocutori, che si riferiscono all'effetto che l'enunciato ha sull'ascoltatore, come il convincere, lo spaventare, il persuadere, o il provocare altre reazioni o conseguenze. Questi tre aspetti aiutano a comprendere come il linguaggio venga utilizzato non solo per comunicare informazioni, ma anche per influenzare e agire nel mondo sociale. Con un metodo di lavoro innovativo, sviluppa le sue teorie in dodici lezioni, differenziando due tipi di enunciati: l'enunciato constativo, che descrive o afferma fatti e stati di cose e viene valutato in base alla sua verità o falsità, e l'enunciato performativo, che non si limita a esprimere o descrivere qualcosa, ma compie un'azione. L'enunciato performativo è soggetto a specifiche condizioni di "felicità" legate al contesto in cui viene pronunciato, come l'autenticità del ruolo, l'adeguatezza della situazione, l'accettazione delle parti coinvolte e il rispetto delle procedure e formalità. Durante i suoi studi, Austin osserva che anche gli enunciati constativi dipendono da condizioni specifiche, estendendo così il criterio performativo a tutti gli enunciati.

Nella sua opera How to Do Things with Words, Austin identifica cinque tipi comuni di atti illocutori: verdictives, che esprimono un giudizio o una valutazione; exercitives, che rappresentano il potere o l'influenza; commissives, che implicano una promessa o un impegno; behabitives, che riguardano comportamenti e atteggiamenti sociali come scusarsi o congratularsi; e infine expositives, che spiegano come il nostro linguaggio interagisce con sé stesso.[1]

Sviluppa un metodo innovativo, che definisce linguistic phenomenology: non analizza il linguaggio solo come un sistema formale, ma lo considera un mezzo per studiare i fenomeni attraverso un'approfondita osservazione e sperimentazione. Tale approccio enfatizza l'importanza del contesto e introduce un'analisi dettagliata e fenomenologica di come il linguaggio compie azioni. La morte impedisce ad Austin di proseguire i suoi studi. Il filosofo e linguista americano John Searle, considerato il suo più diretto successore, amplia e sviluppa le sue idee.

Introduce una tassonomia più dettagliata e analizza le funzioni comunicative del linguaggio, proponendo cinque tipi di atti illocutori che il linguaggio può realizzare: assertivi, che rappresentano come stanno le cose nel mondo; commissivi, che impegnano il parlante a compiere un'azione; direttivi, che tentano di ottenere che l'ascoltatore faccia qualcosa; dichiarativi, che realizzano un'azione semplicemente attraverso la pronuncia; ed espressivi, che dichiarano le attitudini del parlante verso oggetti e fatti. [2]

Critiche alla Teoria degli Atti Linguistici

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Sebbene la teoria degli atti linguistici di Searle abbia avuto una notevole influenza sugli aspetti funzionali della pragmatica, essa ha anche ricevuto forti critiche. Alcuni studiosi sostengono che sia Austin sia Searle abbiano basato il loro lavoro principalmente sulle intuizioni personali, concentrandosi esclusivamente su frasi isolate dal contesto in cui potrebbero essere usate. In questo senso, una delle principali contraddizioni alla tipologia proposta da Searle è che la forza illocutoria di un atto linguistico concreto non può essere ridotta alla semplice forma di una frase. Altri sottolineano che una frase è un'unità grammaticale all'interno del sistema formale del linguaggio, mentre l'atto linguistico implica una funzione comunicativa separata da questo. Nella teoria degli atti linguistici, l'ascoltatore viene spesso visto come un soggetto passivo, poiché la forza illocutoria di un enunciato è determinata principalmente dalla forma linguistica dell'enunciato stesso e dall'introspezione riguardo alla soddisfazione delle condizioni di felicità, tra cui le credenze e i sentimenti del parlante. Gli aspetti interazionali sono quindi trascurati. Tuttavia, come alcuni critici osservano, "Una conversazione non è solo una semplice successione di forze illocutorie indipendenti; piuttosto, gli atti linguistici sono legati ad altri atti linguistici all'interno di un contesto discorsivo più ampio". La teoria degli atti linguistici, non considerando appieno la funzione svolta dagli enunciati nel guidare la conversazione, risulta dunque insufficiente per spiegare ciò che realmente avviene durante una conversazione.[3]

Conflitto, Disaccordo e Risoluzione

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Come sviluppata da Austin e Searle, la Speech-Act Theory è stata utilizzata per creare un metodo di analisi empirica focalizzato su due aspetti principali della comunicazione: negoziazione e argomentazione.

Argomentare significa essenzialmente "giustificare" o "fornire ragioni". Diversi tipi di posizioni possono essere giustificate, e i mezzi di giustificazione sono molteplici. Le giustificazioni possono essere buone o cattive e potrebbero o meno adempiere al loro scopo di "persuasione". Il termine negoziare, invece, ha un significato molto ampio e descrive generalmente il superamento degli ostacoli e il raggiungimento di un accordo in una situazione di potenziale conflitto, che riguarda lo scambio di beni o altri valori soggettivi. Entrambi i processi si basano sul consenso e permettono il compromesso, ovvero un accordo basato su concessioni reciproche. Nella negoziazione, l'accordo si raggiunge generalmente con aggiustamenti reciproci alle richieste delle parti; tuttavia, è anche possibile che nell'argomentazione ci sia una "verità a metà" e, quindi, una parziale persuasione reciproca. Se tralasciamo il significato generale di negoziazione come accordo tramite dialogo e ci limitiamo alla negoziazione nel senso più ristretto, allora il tipo ideale di negoziazione descrive l'aggiustamento reciproco delle richieste e dei desideri tramite concessioni, sia rinunciando al proprio obiettivo ideale, sia riconoscendo le richieste dell'altra parte. Il tipo ideale di argomentazione, invece, cerca di indurre l'altra parte ad abbandonare le proprie opinioni o posizioni tramite persuasione. L'argomentazione fa appello alla ragione, mentre la negoziazione alla disponibilità a fare concessioni. L'argomentazione cerca di risolvere disaccordi cognitivi; la negoziazione cerca di colmare differenze volitive. Sebbene argomentare e negoziare siano forme analiticamente distinte di risoluzione dei conflitti verbali, ciò non significa che siano alternative o opposti semantici. Non sono sostituti l'uno dell'altro; piuttosto, si completano a vicenda. Quando si parla di argomentazione, ci si riferisce al processo di giustificazione di una posizione o di una proposizione attraverso ragioni e prove: proposizioni empiriche (funzionali alla verità) che riguardano fatti concreti e verificabili; proposizioni deontiche (normative) che ineriscono a norme, regole e obblighi; e proposizioni volitive che esprimono desideri o intenzioni. Entrambe avvengono quando ci sono disaccordi o conflitti su fatti, valori o interessi da risolvere. È il tipo di conflitto a determinare se ci sarà negoziazione, argomentazione, o un mix di entrambi.

I conflitti sui fatti si basano su credenze divergenti riguardo al mondo. I disaccordi riguardano entità che possono essere percepite o stabilite intersoggettivamente. Tali disaccordi possono essere risolti facendo ricorso a informazioni empiriche e alla logica. I conflitti che riguardano esclusivamente i fatti possono (e dovrebbero, secondo la credenza normativa generale) essere trattati attraverso una pura argomentazione, modellata sul metodo scientifico. Qualunque sia la posizione corretta, in ogni caso, essa non dipende dall'accordo delle parti in conflitto. Non si negozia sulla "verità". I conflitti sui valori e sulle norme si basano sul disaccordo riguardo alla validità delle proposizioni normative. Tali conflitti possono essere risolti facendo ricorso a informazioni empiriche, logica e valori o norme prevalenti. I conflitti sulla validità di una norma o di un valore possono, tramite la logica, essere argomentati fino a valori (di rango superiore) per cui esiste un consenso. I valori acquisiscono validità grazie al consenso di una società o cultura; dipendono dal consenso comune e sono soggetti a cambiamento.

I conflitti di interesse si basano su desideri e pretese rivali. Alla base del conflitto c'è la scarsità di beni e le diverse valutazioni soggettive delle possibili distribuzioni o delle soluzioni alternative. I conflitti di interesse vengono decisi con il consenso delle parti interessate, e ciò implica la disponibilità soggettiva. In un processo di negoziazione, tutti i partecipanti devono essere d'accordo. Per comprendere se è più probabile che un conflitto venga risolto attraverso argomentazione o negoziazione, è utile porsi una domanda chiave: "Il conflitto riguarda solo fatti, solo valori, o coinvolge anche interessi"" Se il conflitto riguarda solo questioni fattuali, cioè se si tratta di stabilire cosa è vero o falso basandosi su prove concrete, allora la risoluzione avverrà esclusivamente attraverso l'argomentazione, analizzando le evidenze disponibili. Se il conflitto riguarda solo valori o norme, ovvero questioni su ciò che è giusto o sbagliato secondo principi morali o culturali, anche in questo caso la risoluzione avverrà tramite argomentazione, basata su principi e convinzioni condivise. Se il conflitto coinvolge interessi personali o soggettivi, come nel caso di trattative o dispute su risorse limitate, è probabile che si verifichino sia argomentazione che negoziazione. In questi casi, le parti coinvolte non solo discutono e giustificano le loro posizioni, ma cercano anche di trovare un accordo attraverso concessioni reciproche e compromessi. [4]

Conclusioni

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Comprendere la distinzione tra argomentazione e negoziazione è essenziale nella mediazione per gestire efficacemente i conflitti. Mentre l'argomentazione mira a risolvere disaccordi cognitivi attraverso la persuasione logica e l'analisi delle prove, la negoziazione cerca di superare le differenze volitive mediante concessioni reciproche. Entrambi gli approcci sono complementari e spesso si intrecciano nella pratica. La capacità di riconoscere il tipo di conflitto in gioco, che sia basato su fatti, valori o interessi, e di applicare la strategia più adeguata per raggiungere un accordo equo e sostenibile, guida le parti verso una risoluzione che tenga conto sia delle ragioni che delle necessità soggettive di ciascuno.


Dott.ssa Luisa Claudia Tessore

Note bibliografiche

[1] Austin, J. L. (1962) How to do things with words. London: The William James Lectures

[2] Vanderveken, D. & Susumu, K. (2001) Introduction. Essays in Speech Act Theory, John Benjamins Pub. Co. pp. 1-21

[3] Barron, A. (2003) Acquisition in Interlanguage Pragmatics. Learning How to Do Things with Words. in a Study Abroad Context. John Benjamins Pub. Co.

[4] Holzinger, K. (2004) Bargaining Through Arguing: An Empirical Analysis Based on Speech Act Theory Political Communication 2, pp. 195 - 222


Foto: 123rf.com
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