Breve storia della norma che ha tutelato la protezione e la conservazione del patrimonio familiare attraverso le generazioni

Il maggiorascato

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Antico istituto di diritto successorio nato in Spagna e diffusosi in Europa nel XVI secolo, specialmente nei Paesi con una forte tradizione aristocratica, il maggiorascato intendeva preservare l'integrità del patrimonio familiare attraverso la sua costituzione in fedecommesso e la trasmissione indivisa all'interno della stessa famiglia, senza riguardo alla discendenza e seguendo il principio che, dall'ultimo possessore, i beni dovevano passare al parente più prossimo di grado, con preferenza per il maggiore di età in caso di parenti di ugual grado. Il fedecommesso vincolava l'erede a conservare i beni per i successori, evitando la frammentazione del patrimonio tramite alienazioni o divisioni. In Francia, fu fortemente consolidato con la nobiltà terriera, specialmente durante l'ancien régime. Anche la Gran Bretagna adottò un sistema simile attraverso la primogenitura, che garantiva al figlio maggiore il diritto esclusivo su tutte le terre di famiglia.

Si manifestava attraverso l'istituto del fedecommesso, dal latino fideicommissum, (fides, fiducia, e committere, affidare), disposizione testamentaria con la quale il testatore nomina un soggetto determinato, detto istituito, quale erede o legatario, con l'obbligo di conservare i beni ricevuti. Alla sua morte, tali beni passeranno automaticamente a un altro soggetto, detto sostituito, indicato dal testatore stesso. L'istituito gode dell'usufrutto generale dei beni, ma ha l'obbligo di conservarli per restituirli ai suoi successori, ai quali è vietata l'alienazione, l'ipoteca, la donazione, la cessione e qualsiasi altra suddivisione dell'asse patrimoniale, il quale è obbligatoriamente soggetto all'inventario.[1]

Destini negati: il diritto di maggiorasco tra conformismo sociale e letteratura

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Consolidato in epoche passate, il maggiorascato aveva conseguenze dirette non solo sulla trasmissione dei beni, ma anche sulle scelte di vita dei membri della famiglia. Garantiva la trasmissione di titoli nobiliari e beni esclusivamente ai primogeniti, relegando i figli cadetti a opzioni limitate, come la carriera ecclesiastica o militare, spesso percepite come l'unica via d'uscita da un destino di marginalità. Le figlie, invece, si trovavano spesso di fronte a una sorte segnata dalla monacazione forzata, poiché le doti necessarie per il matrimonio erano troppo onerose per le famiglie che si trovavano in difficoltà a garantire somme elevate, come i 15.000 ducati richiesti nella Repubblica di Venezia, a fronte di soli 1.200 ducati per entrare in convento. Un esempio emblematico di questa realtà è Marianna De Levya, alias Gertrude, la Monaca di Monza, protagonista del IX e X capitolo de I Promessi Sposi. Costretta dal padre a prendere i voti e ad entrare nel convento di Santa Margherita a Monza, la sua storia illustra drammaticamente come le convenzioni sociali e le esigenze economiche potessero sacrificare le aspirazioni personali, riflettendo le difficoltà di molte donne della sua epoca.

Giovanni Verga, nel suo romanzo "Storia di una capinera", pubblicato per la prima volta nel 1871, racconta la vicenda della giovanissima Maria, adolescente siciliana orfana di madre, la cui vita è segnata da un destino crudele. Destinata dal padre, succube della nuova moglie, a una vita di clausura in un convento catanese, Maria vive un profondo conflitto tra i suoi desideri di libertà e le aspettative sociali dell'epoca. Commovente è la sua descrizione, all'amica Marianna, del rito del definitivo voto monacale, un momento carico di emozione in cui si intrecciano la speranza e la rassegnazione, rappresentando simbolicamente il sacrificio delle giovani donne costrette a rinunciare alla propria vita e ai propri sogni.

"M'avevano abbigliata da sposa, col velo, la corona, i fiori; m'avevano detto ch'ero bella. Dio mel perdoni!... M'affacciarono alla grata della chiesa. Tu mi vedesti; io non vidi nessuno;…Poi chiusero la cortina, mi spogliarono di quei begli abiti, mi tolsero il velo, i fiori, mi vestirono della tonaca senza che me ne avvedessi. Io non udivo, non vedevo nulla... lasciavo fare, ma tremavo talmente che i miei denti scricchiolavano gli uni contro gli altri. Pensavo alla bella veste da sposa di mia sorella, alla cerimonia cui ella aveva dovuto assistere senza provare lo sgomento che allora m'invadeva. …Mi sciolsero i capelli e me li sentii cadere fin sulle mani che tenevo giunte; li raccolsero tutti in pugno... e allora si udì uno stridere d'acciario... mi parve che mi cogliesse il ribrezzo della febbre, ma era quella sensazione di fresco che provai sul collo allorché quella cosa fredda s'introdusse fra il volume delle mie chiome; … I capelli mi cadevano da tutte le parti a ricci, a trecce intere... e le lagrime mi cadevano dagli occhi... " [2]

Adam Smith, filosofo ed economista scozzese del Settecento, nel Terzo Libro della sua opera An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, (1776), sottolinea come il sistema del maggiorasco miri a preservare il potere e l'influenza delle famiglie nobili, impedendo la frammentazione delle terre, garantendo potere e protezione al proprietario e a coloro che vivono nei suoi possedimenti, soprattutto in periodi di instabilità politica.

"La legge di primogenitura impedì che (le terre) fossero suddivise per successione; l'introduzione dell'inalienabilità impedì che venissero suddivise in piccole parti mediante alienazione". […] "Quando la terra, come i beni mobili, è considerata soltanto un mezzo di sussistenza e di godimento, la legge naturale di successione la divide, come i beni mobili, tra tutti i figli della famiglia; cioè, tra tutti coloro la cui sussistenza e il cui benessere si può supporre siano ugualmente cari al padre. Questa legge naturale di successione ebbe quindi vigore tra i Romani, i quali non facevano distinzione tra primogenito e secondogenito e tra maschio e femmina nella successione delle terre, come noi non la facciamo nella distribuzione dei beni mobili. Ma quando la terra viene considerata come un mezzo di potere e di protezione, e non solo un mezzo di sussistenza, si giudicò fosse meglio che passasse indivisa a uno solo. In quei tempi di disordini (nel Medio Evo), ogni grande proprietario di terre era una specie di piccolo principe. I suoi conduttori erano i suoi sudditi. Egli era il loro giudice e, sotto certi aspetti, il loro legislatore in tempo di pace e il loro condottiero in tempo in tempo di guerra. Egli faceva la guerra a sua discrezione, spesso contro i suoi vicini e a volte contro il suo sovrano. La sicurezza di un possedimento fondiario e la protezione che il suo proprietario poteva dare a coloro che vi dimoravano dipendevano dunque dall'estensione. Dividerlo significava rovinarlo ed esporne ogni singola particella a essere oppressa e inghiottita dalle incursioni dei vicini. La legge della primogenitura viene perciò affermandosi, sia pure non immediatamente ma con il passar del tempo, nella successione dei possedimenti fondiari, per le stesse ragioni per cui era universalmente affermata nella successione delle monarchie, anche se non sempre al momento della fondazione. Perché il potere, e di conseguenza la sicurezza della monarchia, non rischino di essere indeboliti dalla divisione, occorre che passino interi a uno dei figli." [3] Sebbene Smith non si espresse esplicitamente a favore o contro il diritto di maggiorasco, analizzando il contesto e le sue posizioni economiche e filosofiche, è possibile inferire che il suo pensiero fosse critico nei confronti di sistemi che limitavano la libertà economica e la mobilità sociale. Il sistema del maggiorasco, pur avendo l'obiettivo di preservare il potere delle famiglie nobili e la stabilità territoriale, era visto anche quale ostacolo all'innovazione e alla crescita economica. Smith sosteneva che il libero mercato e la concorrenza erano essenziali per il progresso economico. Le sue teorie indicano di conseguenza una preferenza per sistemi che favoriscono la libera circolazione delle risorse e la meritocrazia, piuttosto che la conservazione di strutture aristocratiche rigide.

L'abolizione del maggiorascato e la trasformazione del diritto successorio

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Con l'avvento dell'Illuminismo e delle riforme giuridiche del XVIII secolo, molti sistemi europei iniziarono a mettere in discussione il principio dell'indivisibilità del patrimonio. Nel corso del '700, le sostituzioni fedecommesse perpetue furono soppresse, in quanto in contrasto con la libera circolazione della ricchezza, ammettendo solo il fedecommesso che vincolava il patrimonio familiare per una sola generazione. In Francia, il Code civil, pubblicato con la Legge del 30 Ventoso anno XII (21 marzo 1804) ed entrato in vigore il 1º gennaio 1804, formalmente chiamato Code Napoléon nel 1807, ne decretò l'abolizione, stabilendo uguaglianza ereditaria per tutti i figli. Questo cambiamento giuridico rappresentò una vera e propria rivoluzione nel diritto successorio, in quanto garantiva a ciascun erede una quota equa dell'eredità, senza distinzione di sesso o di età. Molte furono le novità introdotte dal Codice in materia di diritto successorio, dove vennero concretizzati i princìpi di eguaglianza e di libertà affermati dalla Rivoluzione. In particolare, l'articolo 896 sancì l'abolizione delle sostituzioni fedecommissarie, sanzionando con la nullità qualsiasi disposizione inter vivos e mortis causa che le avesse contenute. Questo cambiamento non solo liberò le proprietà dalla rigidità dei vincoli ereditari, ma promosse anche un nuovo approccio alla gestione del patrimonio, incentivando la distribuzione della ricchezza e il libero scambio. Con la Restaurazione del 1815, si cercò di tornare a una certa stabilità sociale e giuridica, riconoscendo la quota "legittima" da ripartire tra gli eredi in maniera uguale e senza distinzione di sesso ed età. Questo nuovo assetto prevedeva una quota "disponibile" che il testatore poteva gestire a suo piacimento e l'obbligo della collazione.

In Italia, con il Codice civile Pisanelli del 1865, il primo promulgato dopo l'Unità, furono abolite tutte le forme di maggiorascato e la possibilità di diseredare i figli, stabilendo l'uguaglianza tra tutti gli eredi, indipendentemente dal loro sesso; tale parità era limitata alla legittima, che il codice fissava nella metà del patrimonio complessivo del defunto, lasciando l'altra metà disponibile per eventuali disposizioni testamentarie che potevano ancora favorire un erede rispetto agli altri. Sebbene il Codice Pisanelli avesse abolito l'obbligo legale di fornire una dote alle figlie femmine, l'istituto non fu completamente eliminato. Rimase infatti in uso a discrezione delle famiglie, che potevano continuare a utilizzarla come mezzo per garantire un futuro economico alle figlie o per agevolarne il matrimonio. Fu solo con la Riforma del diritto di famiglia del 1975 che la dote venne definitivamente abolita, segnando un passo decisivo verso una maggiore parità tra i sessi. La stessa Riforma introdusse importanti cambiamenti nella disciplina successoria, aumentando la quota di legittima, distribuita proporzionalmente tra tutti gli eredi, incluso il coniuge, per assicurare una maggiore equità nella spartizione del patrimonio familiare.[4]

L'istituto del Maso Chiuso e la sostituzione fedecommissaria (art. 692 c.c.)

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Oggi, l'unica area in cui permane un istituto giuridico assimilabile al diritto di maggiorasco è l'Alto Adige. Qui, l'articolo 11 della Legge Provinciale 17/2001 stabilisce che il maso chiuso, un particolare istituto giuridico volto a preservare l'indivisibilità della proprietà agricola, possa essere assegnato solo a un unico erede o legatario. L'annessione dell'Alto Adige all'Italia nel 1919 ne aveva inizialmente comportato l'abrogazione, in quanto considerato estraneo alla tradizione giuridica italiana. Tuttavia, dopo la Seconda guerra mondiale, a seguito del riconoscimento costituzionale dell'autonomia dell'Alto Adige, la legislazione teresiana tornò in vigore. La legge venne riformata, soprattutto per quanto riguarda la parità di trattamento degli eredi di sesso femminile e la tutela del coniuge superstite. Il risultato di questa riforma si tradusse nella sopracitata Legge provinciale 28 novembre 2001, n. 17.[5]

L'articolo 692 del Codice civile italiano (Sostituzione fedecommissaria) prevede che il fidecommesso sia consentito solo nei casi in cui l'istituito sia un interdetto, che può essere un figlio, un discendente o il coniuge del testatore. In questa situazione, il sostituito deve essere una persona o un ente che ha fornito assistenza all'interdetto medesimo sotto la supervisione del tutore. Meccanismo giuridico limitato a circostanze specifiche e a determinate categorie di individui, è concepito per proteggere le persone che non sono in grado di gestire autonomamente il proprio patrimonio, assicurando loro un supporto attraverso il fidecommesso.[6] Tale istituto, generalmente vietato, tranne per le eccezioni previste dalla legge, opera sotto specifiche condizioni: il testatore deve essere il genitore, un ascendente in linea retta o il coniuge dell'erede iniziale; l'erede deve essere un interdetto o un minore che, a causa della sua condizione di salute, è probabile che venga dichiarato interdetto. Inoltre, i sostituti possono essere solo quelle persone o enti che hanno prestato assistenza all'erede, e tale supporto deve iniziare dopo l'apertura della successione e deve essere continuativo.

Conclusioni

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Il fidecommesso ha radici nel diritto romano, sviluppandosi come strumento per preservare l'integrità del patrimonio domestico. I testatori potevano designare una serie di eredi successivi, garantendo che la proprietà rimanesse all'interno della famiglia per più generazioni e limitandone la capacità di alienazione. Tale sistema permetteva di salvaguardare sia il valore economico che quello simbolico dei beni ereditari, soprattutto in periodi storici caratterizzati da instabilità economica e sociale. Con l'avvento dell'Illuminismo e le riforme giuridiche del XVIII secolo, la perpetuazione di tali vincoli iniziò a essere messa in discussione. Le riforme si concentrarono sul principio della libera circolazione degli asset ereditari, poiché il fidecommesso era percepito come un ostacolo a un'economia dinamica e al progresso sociale. La Francia rivoluzionaria fu uno dei primi Stati europei ad abolirlo definitivamente, stabilendo l'uguaglianza tra i coeredi e la possibilità per gli stessi di disporre liberamente dei beni. Questo rappresentò un cambiamento epocale nella gestione dei patrimoni familiari, consentendo un maggior grado di mobilità e redistribuzione.


dott.ssa Luisa Claudia Tessore

Note bibliografiche

[1] https://www.lsd.law/define/fideicommissary-substitution

[2] Verga, G. (autore), Rota Sperti, S. (curatore) (2015) Soria di una capinera - ed. Feltrinelli,

[3] Smith, A. (1776) An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations. History of Economic Thought Books, McMaster University Archive for the History of Economic Thought, number smith1776

[4] https://storicamente.org/

[5] https://lexbrowser.provinz.bz.it/doc/it/lp-2001-17/legge_provinciale_28_novembre_2001_n_17

[6] https://www.brocardi.it/codice-civile/libro-secondo/titolo-iii/capo-vi/sezione-ii/art692.html


Foto: 123rf.com
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