Congruo il massimo provvedimento irrogato dal datore di lavoro a seguito della relazione dell'investigatore privato

La storia

[Torna su]

Un'azienda farmaceutica ha il sospetto che un proprio informatore scientifico alteri il numero di visite effettivamente eseguite, al fine di acquisire lo stesso emolumento a fronte di una prestazione lavorativa inferiore. Per tale ragione incarica un investigatore privato di eseguire dei controlli. Il detective pedina l'informatore e dimostra - nei tre giorni in cui esegue l'accertamento - che il lavoratore visita rispettivamente due + quattro + due potenziali clienti. Egli, invece, nel report consegnato all'azienda, dichiara di aver visitato nove + nove + sei medici. Emerge, pertanto, che l'informatore ha dichiarato una mole di lavoro di gran lunga superiore a quella eseguita (8 visite reali a fronte di 24 dichiarate), affermando, inoltre, di essersi recato in località dove in realtà non è mai stato. Ma c'è di più: nella restante parte delle giornate in cui è stato oggetto di controllo, l'informatore ha impiegato il tempo che avrebbe dovuto dedicare al lavoro per svolgere attività personali e ricreative. L'azienda ha così proceduto al suo licenziamento, che è stato confermato da tribunale e corte d'appello.

Il lavoratore si è quindi rivolto alla Suprema Corte.

I controlli degli investigatori privati

[Torna su]

È ormai pacifico che il datore di lavoro possa effettuare controlli sui propri dipendenti (cc.dd. difensivi) a tutela del proprio patrimonio aziendale, anche di tipo occulto, se finalizzati ad evitare comportamenti illeciti, ed in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, e sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all'insorgere del sospetto.

Non è esclusa la possibilità per il datore di lavoro - ed è anzi ormai prassi consolidata - di ricorrere ad agenzie investigative purché queste non sconfinino nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che degli illeciti siano in corso di esecuzione. Pertanto, i controlli del datore di lavoro a mezzo di agenzia investigativa, riguardanti l'attività lavorativa del prestatore svolta anche al di fuori dei locali aziendali, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti, od integrare attività fraudolente o fonti di danno per il datore medesimo, escludendo che l'oggetto dell'accertamento sia l'adempimento, la qualità o la quantità della prestazione lavorativa.

Il punto di vista dell'azienda

[Torna su]

L'attività intrapresa dal datore di lavoro è stata del tutto legittima, giacché finalizzata a verificare un comportamento sleale o disonesto del lavoratore, che certamente non rientra nei suoi obblighi contrattuali. Si esclude, quindi, che tale verifica possa essere in contrasto con lo statuto dei lavoratori. Pagare un informatore per delle visite che non ha eseguito, e rimborsargli il costo del trasferimento in località presso le quali non si è mai recato, è certamente un danno economico che incide sul patrimonio dell'azienda. La tutela di quest'ultimo è quasi un dovere di ogni buon imprenditore che, così facendo, dinostra di avere riguardo anche degli altri lavoratori.

Il punto di vista del lavoratore

[Torna su]

Sono state considerate prive di pregio le osservazioni del dipendente che ha sollevato un'eccezione circa la congruità del provvedimento, sostenendo la violazione dell'articolo 2119 del codice civile, e quindi la proporzionalità della sanzione.

La Cassazione

[Torna su]

Con l'ordinanza numero 26765 del 15 ottobre 2024, gli ermellini hanno confermato le precedenti sentenze. La censura del dipendente è stata ritenuta infondata. La sentenza ha distinto il fatto addebitato al lavoratore (falsificazione del resoconto del lavoro svolto) rispetto a quello previsto dalla normativa richiamata dal ricorrente a fondamento delle proprie difese (mera alterazione di cartellino o badge).

La norma di riferimento prevede infatti "il licenziamento in tronco in caso di commissione di gravi infrazioni della disciplina o alla diligenza nel lavoro", e ciò a prescindere dall'esistenza o meno di una recidiva. Non gli è quindi rimasto altro che accettare il verdetto e, come da sentenza, rifondere le spese processuali.


Andrea Pedicone

Consulente investigativo ed in materia di protezione dei dati personali

Auditor/Lead Auditor Qualificato UNI CEI EN ISO/IEC 27001:2017


Foto: 123rf.com
Altri articoli che potrebbero interessarti:
In evidenza oggi: