La storia
Un rappresentante sindacale provinciale ha chiesto ed ottenuto due giorni di permesso sindacale per svolgere attività connesse alla sua funzione di sindacalista. L'azienda presso la quale lavora ha dato mandato ad un'agenzia investigativa di accertare il corretto utilizzo del permesso richiesto. Infatti, se è vero che il diritto al permesso riconosciuto al dirigente sindacale provinciale ha natura di diritto potestativo, è altrettanto vero che "allo stesso datore di lavoro spetta il diritto al controllo per accertare l'effettiva partecipazione dei sindacalisti, fruitori di tali permessi, alle riunioni degli organi direttivi, nazionali o provinciali" (cfr. Cassazione, sentenza 11759/03). All'esito dell'indagine è emerso che in quei due giorni il sindacalista si è recato in altra località per accompagnare il figlio ad un concorso, e lì è rimasto senza svolgere alcuna attività sindacale. L'azienda ha quindi proceduto al licenziamento, avverso il quale è ricorso il lavoratore lamentando la violazione della legge sulla privacy. Il Tribunale e la Corte di Appello interessate hanno però riconosciuto come proporzionato il massimo provvedimento sanzionatorio, e legittima l'attività investigativa svolta dal detective privato per conto dell'azienda.
La Cassazione
Non soddisfatto dall'esito dei primi due gradi di giudizio, l'uomo si è rivolto alla Corte di Cassazione. La Suprema Corte - con l'ordinanza numero 29135 del 12 novembre 2024 - ha confermato le sentenze precedenti. Secondo i giudici, la contestazione disciplinare non attiene all'ingiustificata assenza dal lavoro, bensì all'illegittima fruizione del permesso sindacale. L'investigatore, escusso nel corso del procedimento, ha confermato la sua relazione, descrivendo tutti gli spostamenti e le attività eseguite dall'interessato in quei due giorni. Inoltre, scrivono ancora i giudici, "non sussiste violazione della privacy perché il controllo è stato effettuato in luoghi pubblici e finalizzato ad accertare le cause effettive della richiesta di permessi sindacali". Lo sviamento dell'interesse sotteso ai permessi richiesti, poiché l'istituto è stato adoperato per meri interessi personali ed individuali, rende proporzionato il rapporto fra sanzione ed infrazione, "vista l'irreparabile compromissione del vincolo fiduciario, poiché il caso ha ad oggetto non una mera assenza ingiustificata, bensì l'illegittima fruizione di permessi sindacali retribuiti da parte di un dirigente sindacale provinciale".
Il punto sulla privacy
L'obbligo di carattere generale di acquisire il preventivo consenso dall'interessato al trattamento dei suoi dati personali (ex articolo 23 d. lgs. 196/2003), viene meno in talune circostanze. Tra queste, quando la finalità del trattamento è quella di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al suo perseguimento (ex articolo 24 d. lgs. 196/03, comma 1, lettera f). L'indagine deve essere commissionata con atto scritto (ex articolo 8, comma 2, Provvedimento del Garante n. 60 del 6 novembre 2008, Gazzetta Ufficiale 24 novembre 2008, n. 275) e - allorquando i dati trattati siano idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale - il diritto da tutelare deve essere di rango almeno pari a quello dell'interessato (ex articolo 26, comma 4, lettera c, d. lgs. 196/2003). Pertanto, nulla vieta al datore di lavoro di svolgere investigazioni private a tutela del patrimonio aziendale, anche controllando in modalità occulta il lavoratore, purché queste non sconfinino nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che degli illeciti siano in corso di esecuzione. I controlli del datore di lavoro a mezzo di agenzia investigativa, riguardanti l'attività lavorativa del prestatore svolta anche al di fuori dei locali aziendali, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti, od integrare attività fraudolente o fonti di danno per il datore medesimo, escludendo che l'oggetto dell'accertamento sia l'adempimento, la qualità o la quantità della prestazione lavorativa.
Le accortezze
Controllo del dipendente quindi consentito per le finalità sopra esposte, ma con l'accortezza di un incarico scritto; una finalità ben indicata che sia di tutela del patrimonio aziendale, precisando anche le ragioni di fatto che giustificano l'investigazione e la durata (seppur stimata) del controllo; un trattamento limitato al periodo di tempo necessario allo svolgimento dell'investigazione; una minimizzazione dei dati, con la cancellazione di tutte quelle informazioni non pertinenti e/o eccedenti rispetto alla finalità. Diversamente si rischia di incorrere in un illecito trattamento dei dati personali e nella inutilizzabilità delle informazioni raccolte in violazione della normativa privacy. Infatti, i dati personali raccolti e trattati, ovvero le informazioni e prove reperite in violazione dei suddetti dettami, sono inutilizzabili ai sensi dell'articolo 11, comma 2, d. lgs. 196/2003, così come sostituito dall'articolo 2-decies del d. lgs. 101/2018 contenente identica formulazione, con l'unica aggiunta della salvezza di quanto previsto dall'art. 160bis d. lgs. 196/03. Scrivono i giudici: "Ne consegue che sul piano processuale tale norma preclude non solo alle parti di avvalersi dei predetti dati come mezzo di prova, ma pure al giudice di fondare il proprio convincimento su fatti dimostrati dal dato acquisito in modo non rispettoso delle regole dettate dal legislatore e dai codici deontologici" (cfr. Cassazione, sezione lavoro, sentenza 28378 pubblicata il 11/10/2023). D'altronde, questa assolutezza si spiega in chiave funzionale: la ratio della norma è quella di scoraggiare la ricerca, l'acquisizione e più in generale il trattamento abusivo di dati personali, e per realizzare questa funzione il rimedio previsto dal legislatore è quello di impedire la realizzazione dello scopo. La tesi, pur sostenuta da parte della dottrina, secondo cui la disciplina del trattamento dei dati sarebbe irrilevante nell'ambito del processo civile, che resterebbe soggetto alle sue proprie regole, non può essere condivisa. La sua conseguenza, infatti, sarebbe l'utilizzabilità di quei dati sia dalle parti per adempiere i propri oneri probatori, sia dal giudice per la sua decisione. Ma in tal modo si finirebbe per porre l'ordinamento in contraddizione con sé stesso, poiché da un lato qualificherebbe quel trattamento dei dati come illecito, dall'altro permetterebbe la produzione di quei dati in un giudizio civile, ossia una diffusione altrimenti vietata, ed inoltre consentirebbe alla parte di trarre in tal modo vantaggio da un'attività illecita (con pericolosi effetti incentivanti di tale illecito), contrariamente ai principi generali, fra i quali quello del giusto processo ex art. 111 Cost. Pertanto, l'articolo 11 d. lgs. n. 196 cit., nella sua formulazione originaria, va inteso nel senso assoluto di cui si è detto (cfr. Cassazione 28378/2023).
Andrea Pedicone
Consulente investigativo ed in materia di protezione dei dati personali
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