La vicenda processuale
Un medico curante, due infermiere e un medico di servizio del pronto soccorso venivano rinviati a giudizio per aver colposamente cagionato il decesso di una giovane di ventisei anni, colpita da shock settico conseguente a colite pseudmembranosa.
Il Tribunale aveva dichiarato responsabili gli imputati, in particolare: il medico curante, per aver omesso di procedere all'esecuzione di un esame obiettivo, volto a verificare i segni patologici dei vari organi e apparati della paziente, e di fornire indicazioni per l'espletamento di indagini di laboratorio, necessarie per l'accertamento dell'entità dell'infezione gastroenterica; l'infermiera del 118, per aver omesso il trasferimento immediato in ospedale della paziente, a fronte di tachicardia, ipertermia e diarrea (da diversi giorni); l'infermiera del triage del pronto soccorso, per aver sottovalutato la gravità delle condizioni della paziente, registrandola come codice verde; il medico di guardia del pronto soccorso, di aver omesso di visitare con urgenza la paziente, nonostante la denuciata sintomatologia dolorosa, lo stato grave di insufficienza renale ed epatica, e l'aumento di globuli bianchi, così non procedendo a tempestiva diagnosi e omettendo di segnalare l'urgenza di un intervento chirurgico.
I periti davano atto di come nulla potesse essere addebitato al personale paramedico, che, intervenuto al domicilio dopo la chiamata al 118, si è trovato di fronte ad un inspiegabile diniego della paziente e dei di lei familiari al trasporto immediato in ospedale.
Gli esperti concludevano che la morte della paziente era da ricondursi ad uno shock settico in soggetto affetto da colite pseudomemebranosa fulminante, con segni di megacolon tossico. Tale malattia si registra raramente nei giovani (la p.o. aveva solo 26 anni) e, nel caso di specie, era "esordita in forma subacuta e di difficile diagnosi e gestione".
Tuttavia, nonostante la risposta dei periti sulla difficoltà di una diagnosi corretta, il Giudice di primo grado ha comunque concluso per un giudizio di responsabilità, in quanto l'omissione di ogni tipo di indagine medica ha impedito l'avvio di un percorso diagnostico che avrebbe consentito di individuare la malattia e, quindi, di intervenire tempestivamente per salvare la vita alla paziente.
La Corte d'appello condivideva il ragionamento e si limitava a dichiarare estinto il reato per prescrizione, confermando le statuizioni civili.
La sentenza della Cassazione
La Suprema corte (Cass. Pen., Sez. IV, 2-10-2024, sent. n. 45399) ha ritenuto di censurare il ragionamento dei Giudici territoriali, non avendo essi fatto buon governo dei principi tracciati dalla giurisprudenza e stabilmente seguiti dai tempi della celebre sentenza Franzese del 2002. In altre parole, la pronuncia di condanna si poggerebbe su un ragionamento ipotetico, ma privo di adeguato supporto indiziario, in particolare per quel che concerne il fattore scatenante e l'evoluzione che ha determinato la patologia fulminante da cui è derivato l'evento letale. I giudici di merito si sarebbero limitati ad osservare l'omissione di generici approfondimenti diagnostici, quando nemmeno i periti sono stati in grado di individuare le cause di insorgenza e i tempi di evoluzione della patolgia, dagli stessi definita fulminante e di difficile diagnosi. Dunque, prosegue la Corte di legittimità, si fa fatica a comprendere quali accertamenti i medici avrebbero dovuto adottare e, soprattutto, se tali accertamenti avrebbero effettivamente consentito un tempestivo percorso terepeutico, idoneo a impedire o, quantomeno, ritardare significativamente la morte della giovane.
Di fatto, per motivare la decisione, i giudici territoriali avrebbero adottato la teoria del "prima si interviene e meglio è", che si sposa con l'orientamento - superato ormai da oltre vent'anni - dell'aumento del rischio o della perdita di chances, in luogo di quello condizionalistico, scrupolosamente seguito a partire dalla sentenza delle SS. UU. del 2002 (sentenza Franzese) e che meglio si adatta al tema dell'imputazione causale dell'evento: il nesso causale può essere ravvisato solo quando, alla stregua di un giudizio controfattuale, condotto sulla base di generalizzate regole di esperienza o leggi scientifiche, si accerti che, laddove il medico avesse tenuto la condotta doverosa, l'evento non si sarebbe verificato. Tale principio, però, deve essere applicato al caso concreto, sulla base delle circostanze di fatto e dall'evidenza disponibile, così che, esclusi eventi eziologici alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento. Deve concludersi che, nel caso di reato omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento deve sussistere alla stregua di un elevato grado di probabilità logica, non sulla base di un rapporto statistico. Nel caso di specie, diveniva impossibile ragionare in questi termini, nella misura in cui, proprio per la difficoltà della diagnosi, non si riesce ad individuare quando e quale comportamento doveroso avrebbero dovuto adottare i medici.