La Cassazione fa chiarezza sull'esclusione di alcune tipologie di accesso in ospedale ai fini del calcolo del periodo di comporto

Cos'è il periodo di comporto

Per periodo di comporto deve intendersi quel periodo di malattia che il lavoratore deve rispettare e quindi non superare onde evitare di legittimare il datore di lavoro ad un giustificato recesso ai sensi dell'art. 2110 c.c. e della contrattazione collettiva di riferimento.

La ratio della suddetta disposizione si individua nell'esigenza di contemperare due interessi contrapposti, da una parte, l'interesse del lavoratore di poter disporre di un congruo periodo di assenza dal lavoro per ristabilirsi e guarire definitivamente dalla patologia che lo affliggeva, ovvero, almeno ridimensionarla in modo da consentirgli la prosecuzione di una vita dignitosa e, dall'altro, quello del datore di lavoro di non dover subire per un tempo indefinito ripercussioni sull'organizzazione aziendale per l'effetto dell'assenza continua e costante del lavoratore.

Al fine quindi di garantire un equilibrio ed un equo bilanciamento tra le parti, il datore di lavoro non può unilateralmente procedere al licenziamento del lavoratore prima che il periodo di comporto si sia determinato (con una forbice di giorni che varia da contratto a contratto e che ad esempio nel pubblico impiego corrisponde a 180 gg. per anno) considerando anche che il suddetto periodo va calcolato a ritroso di tre anni dall'ultimo episodio di assenza per malattia.

Se quindi le circostanze lo consentono ed il periodo in questione si è determinato, il datore di lavoro può procedere al recesso unilateralmente dal rapporto di lavoro anche prima del rientro del lavoratore essendo una fattispecie del tutto autonoma dalle altre forme di licenziamento riconducibili al giustificato motivo o alla giusta causa ex art. 2119 c.c. e agli arti. 1 e 3 della L. 604/1966 (cfr. Cass. SS.UU. n. 12568/2018 e Cass. n. 19661/2019).

Non sempre però il periodo di comporto, benché superato, può comportare direttamente il recesso, ci sono infatti delle circostanze che possono legittimare il lavoratore al suo superamento senza incorrere in rischi di perdere il posto di lavoro.

Tra queste ricordiamo ad esempio la recente pandemia di Covid-19 a seguito della quale il lavoratore in quarantena e poi in convalescenza che non poteva quindi per ovvie ragioni recarsi sul posto di lavoro prima che risultasse negativo al tampone, escludeva i suddetto periodo dal comporto in applicazione dell'art. 26, D.L. n. 18/2020 c.d. Decreto Cura Italia, oppure lo stato di grave disabilità, la richiesta del lavoratore di un periodo di aspettativa non retribuita, la richiesta di ferie che interrompano il periodo di comporto, ovvero, la sottoposizione a terapie salvavita e/o patologie gravi.

Nel caso di specie, esamineremo in dettaglio la giurisprudenza che riguarda alcune situazioni particolari che riguardano l'interpretazione corretta delle clausole contrattuali e dei lavoratori portatori di handicap non possono quindi essere licenziati o equiparati ai lavoratori non disabili ai fini del computo del periodo di comporto.

La Cassazione esclude accesso al PS e ricovero in day hospital dal comporto

Il caso in esame prende spunto dalla sentenza di Cass. n. 15845/2024, la quale, fa chiarezza sul fatto che, alcune tipologie di eventi non debbano essere ricompresi nel periodo di comporto perché legati direttamente alla patologia grave o alla disabilità del soggetto.

Il lavoratore ingiustamente licenziato, era appartenente alla categoria contrattuale dell'industria ed aveva, secondo l corte di merito, superato il periodo di comporto ben oltre le previsioni consentite dalla contrattazione ex art. 70 CCNL Carta Industria, pertanto il recesso doveva considerarsi più che giustificato.

Di diverso avviso è stata invece la Corte di Appello, la quale, interpretando correttamente l'art. 70 in oggetto, aveva escluso dal computo delle giornate inserite nel periodo di comporto, i ricoveri in day hospital e gli accessi al PS, cosa per altro prevista almeno per quello che riguarda i ricoveri in day hospital anche dal contratto collettivo, diversamente, lo stesso non includeva anche gli accessi al PS.

La Suprema Corte ha quindi correttamente prospettato una interpretazione estensiva della normativa contrattuale, dopo aver analizzato i significati di ricovero ospedaliero e di ricovero in day hospital, dettati dalle disposizioni normative sul tema. In particolare, il DPCM 12 gennaio 2017 intitolato come " Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza di cui all'art. 1, comma 7 del D.lgs. 30 dicembre 1992 n. 502, all'art. 36 " Area di attività dell'assistenza ospedaliera" definisce che "Il livello dell'assistenza ospedaliera si articola nelle seguenti aree di attivita': a. pronto soccorso; b. ricovero ordinario per acuti; c. day surgery; d. day hospital; e. riabilitazione e lungodegenza post acuzie; f. attivita' trasfusionali; g. attivita' di trapianto di cellule, organi e tessuti; h. centri antiveleni (CAV).

Al successivo art. 38 invece rubricato come "Ricovero ordinario per acuti" stabilisce che: 1. Il Servizio sanitario nazionale garantisce le prestazioni assistenziali in regime di ricovero ordinario ai soggetti che, in presenza di problemi o patologie acute, necessitano di assistenza medico-infermieristica prolungata nel corso della giornata, osservazione medico-infermieristica per 24 ore e immediata accessibilità alle prestazioni stesse.

Al successivo art. 42 invece menziona i ricoveri in day hospital: 1. Nell'ambito delle attività di day hospital medico il Servizio sanitario nazionale garantisce le prestazioni assistenziali programmabili, appartenenti a branche specialistiche diverse, volte ad affrontare patologie o problemi acuti che richiedono inquadramento diagnostico, terapia, accertamenti clinici, diagnostici o strumentali, nonché assistenza medico infermieristica prolungata, non eseguibili in ambulatorio. L'attività di day hospital si articola in uno o più accessi di durata limitata ad una sola parte della giornata, senza necessità di pernottamento.

Quindi, mentre il ricovero ospedaliero si caratterizza per una durata che almeno deve superare le 24 ore, presupponendo quindi un pernottamento, il day hospital invece ha una durata giornaliera ma senza pernottamento e si realizza attraverso uno o più accessi di durata limitata anche di una sola parte della giornata.

Visto quindi il significato precipuo delle singole disposizioni, rileggendo il suddetto art. 70 del CCNL Carta Industria, si può escludere che le parti sociali abbiano indicato i temini ricovero ospedaliero e day hospital in maniera tassativa escludendo quindi altre tipologie di ricovero ed infatti, quando la normativa contrattuale dice "nel computo dei limiti della conservazione del posto non saranno conteggiate...le assenze dovute a ricovero ospedaliero, compreso il day hospital" sottointende certamente una nozione di ricovero ampia comprendendo qualsiasi forma di ricovero.

Non sarebbe invero plausibile che l'esclusione del periodo di comporto sia stata prevista solo per i giorni di day hospital e non di altre ipotesi ad esso certamente assimilabili come ad esempio il day surgery definito all'art. 40 dal DPCM succitato, in quanto, i ricoveri in day surgery sono finalizzati all'esecuzione di interventi chirurgici che ben possono essere complessi e più invasivi di un semplice ricovero per terapia in day hospital.

Sarebbe quindi irragionevole che le parti sociali abbiano escluso dal computo del comporto i giorni di ricovero per terapie e esami diagnostici in day hospital e non invece anche interventi chirurgici e d attività invasive in regime di day surgery.

E' del tutto evidente quindi che, l'esatta interpretazione dell'art. 70 CCNL Industria, sia da interpretare estensivamente anche riguardo agli accessi al PS che di fatto rappresentano un ricovero ospedaliero parimenti al ricovero in day hospital o in day surgery.

Per altro, la normativa contrattuale nei casi di ricovero in day hospital non prevede neppure la comunicazione al datore di lavoro, sebbene questa escluda dal novero del comporto l'assenza stessa e la giurisprudenza al di fuori dei casi in cui sia configurabile una condizione di handicap per cui si deve imporre una tutela antidiscriminatoria (Cass. n. 9095/2023; n. 14316/2024; 14402/2024) ha costantemente sottolineato come la disciplina del licenziamento per superamento del periodo di comporto, il punto di equilibrio tra interessi contrapposti del datore di lavoro e lavoratore, sia realizzato assegnando all'assenza lavorativa una valenza puramente oggettiva e non soggettiva, con la conseguenza che in assenza di specifica previsione contrattuale non è onere del datore di lavoro informare il dipendente dell'approssimarsi del superamento del periodo di comporto (Cass. n. 20761/2018; n. 14891/2006).

I lavoratori disabili e il periodo di comporto

Per quello che riguarda particolari situazioni di disabilità grave, anche qui il superamento del periodo di comporto subisce delle deroghe, infatti, costituisce discriminazione indiretta l'applicazione dell'ordinario periodo di comporto previsto per il lavoratore non disabile al lavoratore che si trovi in condizione di disabilità secondo il diritto eurounitario, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della loro disabilità, trasforma il criterio in una prassi discriminatoria nei confronti di un particolare gruppo sociale che si trova in una evidente condizione di svantaggio(Cass.n. 1348/2022).

Per cui, è onere datoriale la conoscenza, secondo l'ordinaria diligenza, della condizione di disabilità del lavoratore prima di procedere al licenziamento e quindi il datore di lavoro deve informarsi circa l'eventualità delle assenze siano connesse allo stato di disabilità ed in ogni caso deve procedere ad una interlocuzione con il lavoratore per definire i confini della questione prima di procedere al recesso.

Pertanto, al fine di garantire il rispetto del principio di parità di trattamento delle persone con disabilità, appare necessario a norma dell'art. 3, comma 3-bis del Dlgs. 216/2003 da parte del datore di lavoro sia pubblico che privato, l'adozione di un "ragionevole accomodamento organizzativo" senza oneri finanziari sproporzionati, che sia in grado di contemperare in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l'interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alle sue condizioni psico-fisiche, con quelle del datore di lavoro di garantirsi una prestazione lavorativa utile all'impresa.

I lavoratori con patologia grave sottoposti a terapia salvavita

Anche su questo versante le disposizioni contrattuali sopportano una deroga al computo del periodo di comporto, nello specifico analizzeremo la contrattazione collettiva del comparto sanità CCNL comporto sanità 2019/21 attualmente ancora operante visto il mancato accordo tra le parti sociali nella definizione del nuovo contratto di settore.

L'art. 57 del CCNL 2019/21 tratta delle assenze per gravi patologie richiedenti terapie salvavita. Prima di analizzare l'articolo in questione è doveroso però comprendere i significati dei termini "grave patologia e terapia salvavita" considerando il fatto che non c'è una disposizione normativa specifica che identifichi tali termini, infatti il DM 11 gennaio 2016, definito come "Integrazioni e modificazioni al decreto 15 luglio 1986, concernente le visite mediche di controllo dei lavoratori da parte dell'Istituto nazionale della previdenza sociale" indica all'art. 1, comma 1, coloro i quali sono esenti dalle visite di controllo da parte dell'INPS (solo i lavoratori del settore privato)

1. patologie gravi che richiedono terapie salvavita: tali patologie devono risultare da idonea documentazione, rilasciata dalle competenti strutture sanitarie, attestante la natura della patologia e la specifica terapia salvavita da effettuare;

2. stati patologici sottesi o connessi alla situazione di invalidità riconosciuta: l'invalidità deve aver determinato una riduzione della capacità lavorativa in misura pari o superiore al 67%.

Cosa si intende per gravi patologie ai fini del periodo di comporto"

Le gravi patologie sono quelle malattie che definite dalle Linee guida in attuazione del Decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministro della Salute, 11 gennaio 2016, previsto dall'art. 25 del d. Lgs. 14 settembre 2015, n. 151 comportano:

1- un vulnus funzionale intenso e inconsueto rispetto la casistica più frequente di malattia e tale da necessitare di contestuale somministrazione di terapie "estreme" ben debitamente certificate;

2- una malattia temporanea determinata o connessa alla menomazione che, valutata in sede medico legale pluricratica, abbia visto assegnarsi una percentuale pari o superiore ai due terzi (67%) di invalidità permanente.

A rendere più complesso il quadro, rileva che non esiste né una normativa specifica né un'elencazione statica delle gravi patologie ovvero delle terapie con la qualificazione di "salvavita".

In senso letterale, si può parlare di terapia salvavita quando vi sia un "pericolo di vita" immediato e concreto ovvero procrastinato, ma altrettanto certo o fortemente probabile: sono terapie salvavita quelle praticate in rianimazione, ma anche quelle che - se non assunte - espongono certamente alla morte.

Ma in termini molto più spicci e concreti potrebbe diventare assimilabile alla terapia salvavita qualunque terapia che si debba assumere cronicamente come, quella anticoagulante, perché altrimenti può verificarsi un'embolia mortale o gravemente invalidante; quella antipertensiva, per scongiurare le rotture vasali e conseguenti emorragie; quella antibiotica, per le infezioni croniche o subacute delle ossa onde evitare gli ascessi ossifluenti; quelle profilattiche antitubercolari; quelle immunosoppressive in tutte le patologie autoimmuni o nei trapiantati e in numerose altre circostanze.

E non può certamente essere questa l'interpretazione, altrimenti qualsiasi patologia di tipo cronico che richiede la terapia a vita potrebbe essere annoverata in una patologia grave e ad una terapia salvavita, in questo viene in soccorso la Suprema corte che definisce nella sentenza n. 26646/2002 la terapia salvavita: è salvavita quella terapia che consente di salvare la vita al paziente, che può essere anche rifiutata liberamente e consapevolmente (ad esempio rifiuto della trasfusione per motivi religiosi), ravvisando il reato di violenza privata nel comportamento del medico che imponesse la terapia contro la volontà del paziente e che può persino sconfinare nell'accanimento terapeutico, quando l'insistere con trattamenti di sostegno vitale sia immediatamente ingiustificato o sproporzionato, malgrado non esistano linee-guida di natura tecnica ed empirica di orientamento comportamentale dei medici davanti a situazioni di insostenibilità della qualità della vita o di degradazione della persona.

Quindi sicuramente si tratta di una terapia che non è cronica ma momentanea, come la terapia antitumorale che prima o poi deve avere una sua interruzione, ovvero terapie durante un periodo di ricovero che hanno realmente salvato il paziente da un esito infausto.

Dunque, sono "salvavita" quelle cure "indispensabili a tenere in vita" la persona e, in certa misura, sono indipendenti dalla qualità intrinseca del/dei farmaco/i usati ad essere salvavita.

Infatti, quel farmaco potrebbe essere salvavita nei confronti di una determinata patologia, ma non esserlo più se somministrato in caso di patologia diversa verso cui ha pur tuttavia indicazione d'uso e/o con altra posologia.

Per "TERAPIA SALVAVITA" deve implicitamente essere esclusa ogni forma di somministrazione cronica del farmaco che, per contro, deve di necessità essere assunto episodicamente per emendare un pericolo di vita attuale e causalmente dovuto a patologia grave in atto estrinsecante il pericolo di vita o l'intensa compromissione acuta del complessivo stato di salute (ad esempio, gli scompensi acuti che, se non altrimenti e prontamente curati, provocano il coma e la morte in un progressivo avvitamento in pejus di eventi.

Ma in ogni caso dovrà essere il medico specialista ovvero di famiglia a certificare che quella terapia in quel preciso arco di tempo è una terapia salvavita.

Ora tornando al CCNL comparto sanità, all'art. 57 rubricato come "Assenza per malattie in caso di patologie gravi

che necessitano di terapia salvavita" prevede al comma 1. In caso di patologie gravi che richiedano terapie salvavita, come ad esempio l'emodialisi, la chemioterapia ed altre ad esse assimilabili, attestate secondo le modalità di cui al comma 2, sono esclusi dal computo delle assenze per malattia, ai fini della maturazione del periodo di comporto, i relativi giorni di ricovero ospedaliero, di day - hospital o accesso ambulatoriale e convalescenza post- intervento nonché i giorni di assenza dovuti all'effettuazione delle citate terapie. In tali giornate il dipendente ha diritto all'intero trattamento economico di cui al comma 11 lett. a) dell'art. 56 (Assenze per malattia).

L'attestazione della gravità della malattia grave e delle terapie salvavita o di patologie assimilabili, deve essere fatta sempre dal medico della Asl, anche dal MMG, come anche sancito dall'interpretazione ARAN sul tema che ha preliminarmente chiarito la diversità di fattispecie prevista dall'art. 20 del CCNL relativo al personale dell'Area Funzioni Centrali 2016-2018 (ed, analogamente dall'art. 42 del CCNL dell'Area Sanità 2016-2018).

Infatti, nel comma 2 si elencano i soggetti cui compete rilasciare la certificazione sulla sussistenza delle gravi patologie, distinguendo tra: Strutture medico-legali delle Aziende sanitarie locali; Enti accreditati; Strutture con competenze mediche delle Pubbliche amministrazioni (nei casi previsti).

Diversamente, il comma 4 del medesimo art. 42 elenca i soggetti che possono certificare i giorni di assenza dovuti all'effettuazione delle terapie salvavita e ai relativi effetti collaterali, vale a dire la struttura medica convenzionata ove viene effettuata la terapia o l'organo medico competente.

Pertanto, l'ARAN ha precisato che la certificazione circa la sussistenza delle gravi patologie spetti soltanto agli enti sopra indicati, mentre la certificazione dei giorni di assenza dovuti all'effettuazione delle terapie salvavita e le assenze correlate agli effetti collaterali di quest'ultime (giorni che vanno esclusi dal computo del comporto anche se in regime di ricovero ospedaliero) può essere effettuata anche dal medico di medicina generale (oltreché, beninteso, dalla struttura medica convenzionata). Invero, nella dizione "organo medico competente" si ritiene debba ricomprendere anche il medico di base e che, al medesimo potrebbe farsi riferimento, ad esempio, anche nel caso di terapie salvavita svolte per loro.

Inoltre, il medesimo articolo del contratto sanità, contempla tra gli accessi non suscettibili di essere ricompresi e computati al periodo di comporto, il ricovero ospedaliero, il day - hospital e persino l'accesso ambulatoriale, alle terapie e agli effetti collaterali delle stesse. Il periodo di convalescenza post-intervento è certificato anche dal medico di medicina generale.

Quindi ad ampliamento della Giurisprudenza succitata, che ha riconosciuto anche gli accessi al PS, nel contratto sanità sono ricopersi anche gli accessi ambulatoriali che correttamente potrebbero comportare terapie salvavita o diagnostica complessa.

La difficoltà quindi, va ricercata solo ed esclusivamente nella individuazione di quelle che secondo la dottrina e la giurisprudenza possono essere definite terapie salvavita, ma che come presupposto fondante hanno sempre alla base una certificazione dello specialista che dichiari la patologia e la conseguente terapia come salvavita.


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