Il mutato contesto sociale non scrimina le espressioni oggettivamente offensive e inutilmente umilianti (G.I.P. Tribunale di Torino, ord. 17-1-25)

La vicenda processuale

La vicenda, salita altresì alla ribalta delle cronache nazionali, vede una donna sporgere una denuncia per diffamazione contro ignoti, che hanno utilizzato il noto social network Facebook per rivolgerle insulti sessisti (quali, ad esempio, "tr***a" e "zo****a). Più segnatamente, queste offese hanno fatto seguito ad un video, diffuso su Internet e divenuto virale, in cui l'ex convivente della donna, durante una festa e per mezzo di una lettera pubblicamente letta, rende noto agli ospiti della fine della storia sentimentale, spiegandone anche le ragioni.

Il P.M. ha chiesto l'archiviazione sulla base di due motivi: l'impossibilità di accertare l'identità degli autori del reato, atteso lo smodato uso di profili falsi; la scriminante del diritto di critica, dovendo necessariamente tener conto del mutato contesto sociale e dell'ormai ampio utilizzo del linguaggio offensivo, specie sui social networks, con conseguente applicazione di criteri più elastici nel giudizio di espressioni "forti".

La donna ha proposto opposizione alla richiesta di archiviazione, sottolineando quanto le espressioni censurate fossero gratuitamente volgari, offensive e sessiste, e chiedendo un supplemento di indagine volta all'individuazione degli autori dei messaggi.

Il delitto di diffamazione (art. 595 c.p.)

Sommariamente e per quanto qui di interesse, il delitto di diffamazione punisce chi, comunicando con più persone, offende la reputazione di una persona assente. Il reato è aggravato se commesso con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità o con atto pubblico. Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito che l'utilizzo di internet, specie dei social networks, costituisce la suddetta aggravante, attesa la peculiarità del mezzo informatico di comunicare con un numero indistinto di persone in tutto il mondo.

Il delitto non sussiste se il linguaggio denunciato è espressione del diritto di critica, che deve soddisfare, però, tre requisiti: la verità del fatto narrato; l'interesse pubblico; la continenza delle parole usate.

L'ordinanza del G.I.P.

Il G.I.P. del Tribunale di Torino ha rigettato la richiesta di archiviazione, sottolineando la fondatezza dell'atto di opposizione su più fronti.

Il Giudice ha preliminarmente evidenziato che la maggior parte dei commenti atteneva alla morale femminile; che gli aggettivi usati si "sostanziano in concetti rivolti in modo esclusivo al genere femminile. Tanto che non stupisce la successiva ed immediata evoluzione in vere e proprie minacce ("andavi presa a calci in culo schifosa"; "le troie vanno punite in questo modo")". Tali comportamenti, perfettamente inquadrabili nell'ambito di comportamenti sessisti e discorsi d'odio, sono oltretutto realizzati per mezzo delle TIC - Tecnologie dell'informazione e della comunicazione - cui la normativa comunitaria presta molta attenzione, ritendoli una della forme di manifestazione della violenza contro le donne (v. Direttiva U.E. n.1385/24). La direttiva rileva che l'utilizzo dei social networks rende la diffusione dei commenti facile e rapida, aumentando esponenzialmente i danni alla vittima.

Passando all'analisi del diritto di critica, il Tribunale specifica che nessuno dei tre requisiti richiesti è ravvisabile:

a) Quanto alla verità del fatto, si afferma che le frasi oggetto di contestazione, anche volendo ammettere (sebbene nel caso di specie assolutamente non provato) che fossero ricollegabili ad un fatto vero, si limitano ad insultare e finiscono per essere del tutto sganciati dall'evento concreto: "la critica presuppone un ragionamento logico: ma se insulto immotivamente, senza indicare il presupposto del mio giudizio, la frase resta diffamatoria".

b) L'interesse pubblico è legata alla notorietà del personaggio e, anche qualora si tratti di persona nota, l'interesse manca se il giudizio non si indirizza alla dimensione pubblica, ma alla sfera privata, confinandosi, quindi, in un mero attacco personale.

c) La continenza del linguaggio è probabilmente il requisito di più difficile valutazione. Il diritto di critica, infatti, consente l'utilizzo di toni accesi e aspri, tenendo anche conto del contesto, purché non sconfinino in offese gratuite e attacchi personali. Nel caso di specie, il giudice è concorde nel ritenere che debba essere preso in considerazione il mutato contesto sociale e che talune espressioni volgari sono ormai una consuetudine, soprattutto nel mondo virtuale dei social networks. Tuttavia, "le parole scelte dagli autori del post appaiono oggettivamente sopra le righe e inutilmente umilianti. Sono veri e propri insulti. I termini scelti non sono semplicemente inurbani o forti, sono volutamente e inequivocabilmente offensivi".


In conclusione, quanto all'individuazione degli autori del reato, asserisce il GIP che l'attribuzione di un profilo Facebook ad una persona fisica può avvenire, anzitutto, sulla base di elementi logici, come i dati personali (nome, cognome, data di nascita, città di residenza e foto) già indicati dall'utente, rendendo decisamente più agevole la verifica circa la correlazione tra un profilo virtuale e una determinata persona. In merito alla possibilità che gli autori possano usare profili falsi, quindi nomi e foto altrui, va rilevato che tale eventualità si verifica per lo più in contesti di criminalità informatica organizzata e di un certo livello (mentre, nel caso di specie, si tratta di meri commenti ad un video). Ad ogni modo, volendo escludere totalmente il rischio di profili fake è ben possibile procedere ad accertamenti tecnici, da richiedere direttamente a Facebook. Attività, quest'ultima, non presa in considerazione dalla Procura.



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