Il nuovo principio di diritto della Cassazione sullo smart working (o lavoro agile)

Lo smart working, o "lavoro agile", è stato introdotto nel nostro ordinamento con la legge n. 81 del 2017. Se inizialmente lavoratori e aziende avevano dimostrato la propria diffidenza nei confronti di tale modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, il diffondersi della pandemia da Covid-19 ha permesso al mondo del lavoro di cogliere a pieno i vantaggi del lavoro agile: non solo in relazione alle esigenze legate alla situazione epidemica (evitare rischi di contagio, tutelare i lavoratori fragili, etc.) ma anche con riguardo ad aspetti più generali (risparmio di costi aziendali, bilanciamento lavoro-vita privata, etc.).

Anche se, una volta cessata la pandemia, si è tornati alla previgente disciplina dello smart working, di recente la Corte di Cassazione ha ammesso che in alcune ipotesi può configurarsi un vero e proprio diritto al lavoro agile.

La disciplina dello smart working dopo la pandemia

La normativa emergenziale, come noto, ha riconosciuto il diritto di svolgere le prestazioni lavorative in regime di smart working in favore di alcune categorie di lavoratori, considerate particolarmente a rischio.

Siffatte disposizioni - in ragione delle contingenze che hanno condotto alla loro entrata in vigore - avevano natura temporanea: infatti, nell'aprile 2024, tali misure sono venute meno anche in riferimento alle ultime categorie a cui erano destinate, ovvero lavoratrici e lavoratori del settore privato con figli under 14 e lavoratrici e lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio da virus SARS-CoV-2, secondo l'accertamento effettuato dal medico competente.

Pertanto, a partire dal mese di aprile 2024, si è tornati alla disciplina previgente (legge n. 81/2017), che prevede la necessità di concludere accordi individuali fra imprenditore e lavoratore che dispongano lo smart working e ne disciplinino le modalità esecutive.

Tali accordi, disciplinati dall'articolo 19 della legge menzionata, devono avere le seguenti caratteristiche:

  • possono essere a termine o a tempo indeterminato;
  • devono essere stipulati in forma scritta;
  • disciplinano le forme di esercizio del potere direttivo e di controllo del datore di lavoro nei confronti del lavoratore al di fuori dei locali aziendali;
  • indicano gli strumenti utilizzati dal lavoratore;
  • individuano i tempi di riposo del lavoratore e le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro;
  • individuano le condotte del lavoratore sanzionabili a livello disciplinare;
  • prevedono l'eventuale diritto all'apprendimento.

Entrambe le parti, inoltre, hanno facoltà di recedere dall'accordo di smart working: se il patto è a tempo indeterminato, occorre un preavviso di almeno 30 giorni, altrimenti il recesso è consentito esclusivamente in caso di giustificato motivo.

La sentenza della Cassazione n. 605/2025: il fatto

La previsione della necessità di un accordo individuale ai fini della concessione dello smart working esclude che tale modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative possa costituire un diritto del lavoratore.

Tuttavia, in modo innovativo - anche se in linea con le recenti tendenze giurisprudenziali europee e nazionali - la Corte di Cassazione ha di recente stabilito che possa configurarsi il diritto allo smart working, laddove questo costituisca un "accomodamento ragionevole" rispetto alle esigenze del dipendente invalido.

Nel caso sottoposto all'attenzione della Corte di legittimità, un lavoratore con deficit visivo, addetto a servizi di customer care, aveva richiesto all'azienda di rendere la propria prestazione lavorativa da remoto, considerato che - come si legge nella sentenza - "le condizioni di salute del lavoratore rendevano l'accesso alla sede di lavoro di Napoli molto difficoltosa; che lo svolgimento di lavoro agile era regolato in azienda da accordo del 27.7.2017, da cui, però, erano esclusi i caring agents quali il ricorrente; [...] che l'espletamento della prestazione lavorativa in modalità di smart working era stato realizzato durante il periodo di emergenza sanitaria correlata alla pandemia…".

A fronte del diniego del datore di lavoro, il lavoratore ha deciso di agire dinanzi al Tribunale competente per vedere accertata la natura discriminatoria della condotta datoriale e riconosciuto il diritto allo smart working. Il Tribunale ha rigettato il ricorso, ma l'appello del lavoratore è stato accolto e, successivamente, la pronuncia di secondo grado è stata confermata dalla Suprema Corte, con la sentenza in esame.

La sentenza della Cassazione n. 605/2025: il principio di diritto

Norma centrale nel percorso argomentativo della cassazione è l'art. 3, comma 3-bis, d. lgs. n. 216/2003, che impone al datore di lavoro di adottare "ragionevoli accomodamenti" in funzione antidiscriminatoria, con riguardo ai lavoratori con disabilità.

Infatti, precisa la Corte "in tema di comportamenti datoriali discriminatori, nel caso di discriminazione diretta la disparità di trattamento è determinata dalla condotta e nel caso di discriminazione indiretta la disparità vietata è l'effetto di un atto, di un patto, di una disposizione, di una prassi in sé legittima (Cass. n. 20204/2019), il termine di paragone è rappresentato dalle modalità della prestazione per i lavoratori non portatori di gravi disabilità; la questione degli accomodamenti ragionevoli possibili e praticabili in concreto si sposta, pertanto, sul piano della prova", dovendo infatti il datore di lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure che possano rappresentare accomodamenti ragionevoli, tali da far venire meno la portata discriminatoria di un dato comportamento in danno di alcune categorie di lavoratori.

In particolare, i Giudici di legittimità hanno condiviso le osservazioni della Corte d'Appello, che "non ha giudicato che il datore di lavoro si trovasse in una situazione di impossibilità di adottare i suddetti accomodamenti organizzativi ragionevoli, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto (v. Cass. n. 5048/2024)". Infatti, nel caso di specie, "il ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l'interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all'impresa, è stato individuato nella soluzione dello smart working dall'abitazione, già utilizzata nel periodo pandemico (v. Cass n. 6497/2021 cit., n. 9870/2022)".

La Suprema, peraltro, si sofferma anche sul rapporto fra la già esaminata normativa generale in materia di lavoro agile e la disciplina antidiscriminatoria, affermando che "gli accomodamenti ragionevoli ben possono realizzarsi in sede negoziale, ma, in mancanza di accordo, la soluzione del caso concreto è individuata dal giudice di merito".

La sentenza esaminata, pertanto, presenta una notevole portata innovativa, consentendo di configurare il lavoro agile come un vero e proprio diritto del lavoratore, in alcune ipotesi, nonostante la necessità dell'accordo individuale di cui alla normativa del 2017.

Sotto diverso profilo, tale pronuncia non può che essere letta - a nostro avviso - anche come un monito al legislatore, affinché provveda ad attualizzare la disciplina dello smart working, in considerazione sia dei vantaggi di tale modalità di lavoro, già dimostrati durante il periodo pandemico, sia dell'evoluzione del diritto antidiscriminatorio europeo e nazionale.

Avv. Francesco Chinni

Avv. Sergio Di Dato

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