Con la sentenza n. 3074 del 10 aprile 2025, la Terza Sezione del Consiglio di Stato è tornata ad affrontare il tema delle prestazioni sanitarie fornite in regime di accreditamento, focalizzandosi sul caso in cui si superino i limiti temporali di assenza dalla struttura terapeutica previsti dalla normativa regionale. Il fulcro della questione è la possibilità di derogare a tali limiti quando siano presenti esigenze assistenziali e cliniche particolari, adeguatamente giustificate.
Il contenzioso ha avuto origine dal rifiuto dell'ATS di Milano - Città Metropolitana di riconoscere, anche solo in parte, il contributo economico per le giornate di assenza superiori al limite di 40 previsto dalla Regione Liguria. La paziente coinvolta, affetta da una grave malattia cronica, era inserita in un progetto terapeutico che prevedeva un'alternanza tra il soggiorno in una comunità ligure e periodi trascorsi a casa, al fine di favorire una maggiore stabilità del quadro clinico. La normativa regionale (delibera ALISA n. 73/2018) stabilisce che oltre i 40 giorni annui di assenza, la retta non è più coperta dal sistema pubblico, salvo diverso accordo tra struttura e famiglia.
Il TAR della Lombardia, con sentenza n. 2061 del 2023, aveva accolto il ricorso presentato dalla tutrice della paziente, sostenendo che il limite temporale non poteva essere applicato in modo rigido quando esiste un progetto terapeutico approvato dal servizio sanitario e quando non vi siano soluzioni assistenziali equivalenti disponibili. Il Consiglio di Stato ha confermato integralmente questo orientamento. Secondo il Collegio, infatti, le disposizioni della delibera devono essere lette in modo coordinato: l'articolo 6, che stabilisce il limite dei 40 giorni, va interpretato alla luce dell'articolo 5, che prevede espressamente la possibilità di superare tali soglie in presenza di particolari necessità clinico-assistenziali, purché ci sia una valutazione specifica.
L'interpretazione fornita dal Consiglio di Stato mette in evidenza come l'articolo 5 non sia una previsione marginale, ma un elemento centrale del sistema normativo, pensato proprio per garantire flessibilità e adattabilità nei casi complessi. Ignorarlo equivarrebbe a svuotarlo di significato e a negare la possibilità di adattare l'assistenza ai reali bisogni del paziente.
Nel caso concreto, il piano terapeutico personalizzato della paziente - elaborato sin dal 2007 in collaborazione con l'ASST competente - prevedeva strutturalmente periodi di permanenza a casa, mediamente compresi tra 150 e 180 giorni all'anno. Tale assetto era stato costantemente validato nel tempo da valutazioni mediche aggiornate. Dalla documentazione clinica emergeva chiaramente che questo era l'unico percorso terapeutico efficace per quella specifica situazione, e che non erano state offerte alternative equivalenti da parte dell'Amministrazione.
Il Consiglio di Stato ha anche richiamato una precedente ordinanza dello stesso Collegio (n. 595/2023), in cui si era già stabilito che i rientri a domicilio non interrompono la terapia, ma ne costituiscono una parte essenziale, orientata al benessere complessivo della paziente. Di conseguenza, un diniego al riconoscimento economico compromette non solo il sostegno finanziario, ma anche la concreta possibilità di proseguire il trattamento nei termini stabiliti.
In definitiva, questa sentenza ribadisce un principio ormai consolidato nella giurisprudenza amministrativa: il diritto alla salute, tutelato dall'art. 32 della Costituzione, deve prevalere su logiche puramente burocratiche o vincoli di bilancio. Le norme che consentono deroghe, se basate su valutazioni cliniche motivate, non devono essere considerate eccezioni, ma strumenti fondamentali per garantire un'assistenza sanitaria realmente efficace e centrata sulla persona. L'eventuale mancato uso di queste deroghe, se non giustificato da motivi medici concreti, rappresenta un vizio del provvedimento, per carenza di motivazione e sproporzione rispetto alle esigenze del caso.
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