La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione (Sent. 46674/07) ha stabilito che chi crea una falsa mail spacciandosi per una persona diversa da quella che è (magari anche modificando il sesso), ingannando gli altri utenti del web, rischia di commettere un reato (p.e p. dall'art. 494 c.p. "sostituzione di persona") e quindi di finire in carcere.
Precisano infatti gli Ermellini che "oggetto della tutela penale, in relazione al delitto preveduto nell'art. 494 c.p., è l'interesse riguardante la pubblica fede, in quanto questa può essere sorpresa da inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua identità o ai suoi attributi sociali" e che, prosegue la Corte, nel caso di specie, "siccome si tratta di inganni che possono superare la ristretta cerchia d'un determinato destinatario, così il legislatore ha ravvisato in essi una costante insidia alla fede pubblica, e non soltanto alla fede privata e alla tutela civilistico del diritto al nome".
I Giudici, nel caso di specie, pur ritenendo ammissibile la possibilità per chiunque di attivare un 'account' di posta elettronica recante un nominativo diverso da quello proprio, hanno evidenziato che "il ricorso non considera adeguatamente che, consumandosi il reato 'de quo' con la produzione dell'evento conseguente all'uso di mezzi indicati nella disposizione incriminatrice, vale a dire con l'induzione di taluno in errore, nel caso in esame il soggetto indotto in errore non è tanto l'ente fornitore del servizio di posta elettronica, quanto piuttosto gli utenti della rete, i quali, ritenendo di interloquire con una determinata persona […], in realtà inconsapevolmente si sono trovati ad avere a che fare con una persona diversa".
Precisa infine la Corte che non è irrilevante il fatto che il contratto non sia intuitus personae (ma fa riferimento alle prospettate attitudini dell'inserzionista) giacché "non è affatto indifferente, per l'interlocutore, che 'il rapporto descritto nel messaggio' sia offerto da un soggetto diverso da quello che appare offrirlo, per di più di sesso diverso".
Precisano infatti gli Ermellini che "oggetto della tutela penale, in relazione al delitto preveduto nell'art. 494 c.p., è l'interesse riguardante la pubblica fede, in quanto questa può essere sorpresa da inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua identità o ai suoi attributi sociali" e che, prosegue la Corte, nel caso di specie, "siccome si tratta di inganni che possono superare la ristretta cerchia d'un determinato destinatario, così il legislatore ha ravvisato in essi una costante insidia alla fede pubblica, e non soltanto alla fede privata e alla tutela civilistico del diritto al nome".
I Giudici, nel caso di specie, pur ritenendo ammissibile la possibilità per chiunque di attivare un 'account' di posta elettronica recante un nominativo diverso da quello proprio, hanno evidenziato che "il ricorso non considera adeguatamente che, consumandosi il reato 'de quo' con la produzione dell'evento conseguente all'uso di mezzi indicati nella disposizione incriminatrice, vale a dire con l'induzione di taluno in errore, nel caso in esame il soggetto indotto in errore non è tanto l'ente fornitore del servizio di posta elettronica, quanto piuttosto gli utenti della rete, i quali, ritenendo di interloquire con una determinata persona […], in realtà inconsapevolmente si sono trovati ad avere a che fare con una persona diversa".
Precisa infine la Corte che non è irrilevante il fatto che il contratto non sia intuitus personae (ma fa riferimento alle prospettate attitudini dell'inserzionista) giacché "non è affatto indifferente, per l'interlocutore, che 'il rapporto descritto nel messaggio' sia offerto da un soggetto diverso da quello che appare offrirlo, per di più di sesso diverso".
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