Chi promuove un'azione per la risoluzione del contratto e per il risarcimento del danno non può poi trasformare la sua domanda in recesso con ritenzione della caparra perchè le due azioni sono incompatibili tra loro. Lo afferma la Corte di Cassazione chiarendo che non si può vanificare la funzione della caparra che è proprio quella di consentire la luquidazione anticipata e convenzionalmente stabilita del danno per evitare l'instaurarsi del giudizio. Nel caso esaminato dalla Corte una delle parti aveva sostenuto che la trasformazione della domanda non avrebbe integrato gli esremi dello "ius novorum" vietato per legge, ma il semplice esercizio di una facoltà perdurante della parte. La Corte (sentenza 553/2009) spiega che "la questione del coordinamento dei due rimedi risarcitori alternativamente riconosciuti dall'art. 1385 c.c. - quanto, cioè, alla facoltà, per la parte adempiente che abbia agito per la risoluzione del contratto (art. 1385 c.c., comma 3) e per la condanna della parte inadempiente al risarcimento del danno ex art. 1453 c.c., di sostituire tali richieste, in appello, con una domanda di recesso dal contratto e di ritenzione della caparra o del suo doppio (art. 1385 c.c., comma 2) - è stata più volte affrontata da questa corte di legittimità, e diacronicamente risolta, in modo non uniforme, secondo percorsi argomentativi diversi e sovente contrastanti". Una parte della giurisprudenza ritiene che una volta "Introdotta la domanda di risoluzione per inadempimento e di risarcimento dei danni, non è applicabile la disciplina della caparra di cui al secondo comma dell'art. 1385 c.c. (Cass. 13828/2000; 8881/2000; 8630/1998; 3602/1983)" Altre pronunce sono invece favorevoli alla sostituzione della domanda di risoluzione con quella di recesso per cui "la parte non inadempiente che, ricevuta una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, abbia purtuttavia agito per la risoluzione (o esecuzione) del contratto e per la condanna al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 1453 c.c., potrebbe legittimamente sostituire a tali istanze, in grado di appello, quelle di recesso dal contratto e di ritenzione della caparra a norma dell'art. 1385 c.c., comma 2. Tale richiesta non integrerebbe, difatti, gli estremi della domanda nuova vietata dall'art. 345 c.p.c., configurandosi piuttosto, rispetto alla domanda originaria, come esercizio di una perdurante facoltà (e come più ridotta istanza) rispetto alla risoluzione, in una parallela orbita risarcitoria che ruota pur sempre intorno all'inadempimento dell'altra parte (Cass. n. 3331 del 1959; n. 2380 del 1975; n. 1391 del 1986; n. 1213 del 1989; n.7644 del 1994; n. 186 del 1999; n. 1160 del 1996; n. 11760 del 2000; n. 849 del 2002, sia pur in obiter)". Chi ritiene inammissibile la sostituzione delle domande fa rilevare che "la domanda di risoluzione del contratto e di risarcimento del danno e quella di recesso dal contratto medesimo con incameramento della caparra avrebbero, in linee generali, oggetto diverso, nonchè differente causa petendi". Per questo "la seconda domanda, se formulata soltanto in appello in sostituzione della prima proposta in primo grado, non costituisce semplice emendatio della iniziale pretesa, ma delinea una questione del tutto nuova, come tale inammissibile ai sensi dell'art. 345 c.p.c. (Cass. n. 8995 del 1993)". La sentenza in esame analizza in dettaglio il susseguirsi di pronunce che affrontano la problematica sotto diverse angolazioni (richiamiamo in proposito il testo integrale della motivazione). La Corte, in ogni caso perviene alla conclusione della incompatibilità tra azione di risoluzione e di risarcimento integrale da una parte, e azione di recesso e di ritenzione della caparra dall'altro.
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