La Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione (Sent. n. 26281/2009) ha stabilito che risponde di appropriazione indebita e non di infedeltà patrimoniale (perseguibile solo su querela degli altri soci) il manager di una società che preleva dai conti il profitto di un'operazione commerciale. Ma non solo. Può essergli sequestrato il denaro reinvestito in titoli I Giudici del Palazzaccio hanno precisato che "le norme incriminatrici dell'infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c.) e dell'appropriazione indebita (art. 646 c.p.) sono fra loro in rapporto di specialità reciproca. La prima tipizza la necessaria relazione tra un preesistente ed ancora attuale conflitto di interessi, obiettivamente valutabile, e le finalità di profitto o altro vantaggio dell'atto di disposizione, finalità che si qualificano in termini di ingiustizia per la proiezione soggettiva del preesistente conflitto. L'appropriazione indebita presenta caratteri di specialità per la natura del bene (soltanto denaro o cosa mobile) che ne può essere oggetto e per l'irrilevanza del perseguimento di un semplice vantaggio anziché di un profitto. L'ambito di interferenza tra le due fattispecie è dato dalla comunanza dell'elemento costitutivo della deminutio patrimonii e dell'ingiusto profitto, ma essere differiscono per l'assenza, nell'appropriazione indebita, di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi, che invece connota l'infedeltà patrimoniale (…)".
"In altri termini - prosegue la Corte -, nell'ottica di riferimento dell'art. 2634 c.c. l'atto di disposizione è astrattamente legittimo, seppur in concreto dannoso per la società, raggiungendo un livello di vera e propria illiceità penale solo ove sul piano materiale risulti qualificato da un autonomo e preesistente conflitto di interessi".
Nel caso di specie, ha osservato la Corte, "seppur vi è stato abuso di posizione (elemento - questo - comune tanto all'art. 2634 quanto all'art. 646 aggravato ex art. 61 n. 11 c.p.), è però mancato il soddisfacimento d'un legittimo interesse giuridicamente meritevole di tutela, atteso che quello del ricorrente era un interesse (arricchirsi senza causa con danno per la società) civilisticamente sprovvisto di protezione, oltre che penalmente illecito".
"In altri termini - prosegue la Corte -, nell'ottica di riferimento dell'art. 2634 c.c. l'atto di disposizione è astrattamente legittimo, seppur in concreto dannoso per la società, raggiungendo un livello di vera e propria illiceità penale solo ove sul piano materiale risulti qualificato da un autonomo e preesistente conflitto di interessi".
Nel caso di specie, ha osservato la Corte, "seppur vi è stato abuso di posizione (elemento - questo - comune tanto all'art. 2634 quanto all'art. 646 aggravato ex art. 61 n. 11 c.p.), è però mancato il soddisfacimento d'un legittimo interesse giuridicamente meritevole di tutela, atteso che quello del ricorrente era un interesse (arricchirsi senza causa con danno per la società) civilisticamente sprovvisto di protezione, oltre che penalmente illecito".
vedi anche:
Appropriazione indebita: guida legale
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