La Corte di Cassazione ha stilato un vademecum su quelle che debbono essere le regole per ottenere il risarcimento del danno in caso di mobbing in ufficio. Secondo la Corte, per evitare cause inutili, occorre considerare in primo luogo che per "per 'mobbing' si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica, da cui puo' conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalita'". Fatta questa precisazione la Corte (sentenza 3785/2009) spiega che per avere maggiori possibilità di successo in una causa per mobbing occorre innanzitutto che vi sia una "molteplicita' dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistamatico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio".
In secondo luogo occorre sapere che per poter parlare di mobbing occorre che una determinata azione sia stata lesiva "della salute o della personalita' del dipendente". Ma non basta, la Suprema Corte sottolinea anche la necessità di acertare l'esistenza del "nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrita' psico-fisica del lavoratore". Da ultimo occorre avere la prova dell'elemento soggettivo ossia dell'intento persecutorio. E' stato così respinto il ricorso di un postino che nel fare causa alle poste per un infornunio aveva anche sostenuto di essere stato vittima di vari episodi di mobbing. La Cassazione pur avendo accertato che vi erano stati dei contrasti tra la dirigente d'ufficio e il lavoratore, tali contrasti di per sè "non sono tali da provare la sussistenza di un intento vessatorio del dirigente dell'ufficio".
In secondo luogo occorre sapere che per poter parlare di mobbing occorre che una determinata azione sia stata lesiva "della salute o della personalita' del dipendente". Ma non basta, la Suprema Corte sottolinea anche la necessità di acertare l'esistenza del "nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrita' psico-fisica del lavoratore". Da ultimo occorre avere la prova dell'elemento soggettivo ossia dell'intento persecutorio. E' stato così respinto il ricorso di un postino che nel fare causa alle poste per un infornunio aveva anche sostenuto di essere stato vittima di vari episodi di mobbing. La Cassazione pur avendo accertato che vi erano stati dei contrasti tra la dirigente d'ufficio e il lavoratore, tali contrasti di per sè "non sono tali da provare la sussistenza di un intento vessatorio del dirigente dell'ufficio".
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