Una tirata d'orecchie ai cappellani del carcere arriva dalla Corte di Cassazione. Se ci sono condanne pesanti, spiegano i supremi giudici il silenzio dei sacerdoti su confidenze importanti diventa del tutto "fuori luogo". La precisazione arriva dalla quinta sezione penale della Corte che si è occupato del caso di un uomo (condannato con sentenza definitiva come mandante dell'omicidio di una coppia) il quale ha chiesto la revisione della sentenza sulla base di dichiarazioni rese, dopo nove anni dai fatti, dal cappellano del carcere dove era detenuto. Queste dichiarazioni lo avrebbero scagionato dimostrando la sua estraneità dei fatti. La Cassazione non ha ritenuto "attendibili" le dichiarazioni del sacerdote dato il notevole tempo trascorso tra la data in cui ebbe ad apprendere dei fatti e il momento in cui sono state poi riferite all'autorita' giudiziaria. La Corte non ha esitato però dal censurare questo lungo silenzio. Nella parte motiva della sentenza si legge: "risulta che il sacerdote sin dal 1997 venne in possesso delle confidenze" di un detenuto "e da allora ebbe inizio il travaglio di coscienza del prelato che si concluse poi con l'inserimento della sua testimonianza nella istanza di revisione nel maggio 2006". Su ciò la Corte (sentenza n.10175/2010) afferma che "le confidenze non erano state raccolte dal sacerdote nel corso di una confessione, circostanza che avrebbe pienamente giustificato il tormento, ma nel corso di colloqui avvenuti nel carcere ai quali il sacerdote partecipava nella sua qualita' di cappellano della casa circondariale".
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