Con la sentenza n. 18496 la Sesta sezione penale ha stabilito che l'imputato immigrato in Italia non ha diritto ad un interprete madrelingua: basta, infatti, un interprete che assista l'imputato e che parli una lingua a lui conosciuta al fine di poter comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa. Secondo la ricostruzione della vicenda, un uomo, condannato a otto anni e sei mesi per aver detenuto e trasportato circa 15 kg di eroina, aveva fatto ricorso in cassazione, lamentando l'erronea applicazione dell'art. 143 del codice di procedura penale per la mancata assistenza di un interprete di lingua bulgara e per la mancata traduzione della sentenza di condanna. La Corte, rigettando il ricorso ha specificato che "all'imputato alloglotta, che non abbia una conoscenza della lingua italiana, l'ordinamento processuale italiano (art. 143 c.p.p.) e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (art. 6.3 lett. a L. 4.8.1955 n. 848) riconoscono non già il diritto all'assistenza di un interprete di madre lingua, bensì quello di farsi assistere gratuitamente da un interprete, per la traduzione in una lingua a lui comprensibile, al fine di poter comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa". Inoltre, per quanto riguarda la mancata traduzione della sentenza, la Corte ha precisato che "la sentenza non è compresa nella categoria di atti rispetto ai quali la legge processuale assicura all'imputato straniero, che non conosca la lingua italiana, il diritto alla nomina di un interprete per la traduzione della lingua a lui conosciuta (…) La mancata traduzione non è pertanto, causa di nullità della sentenza, potendo determinare, se ne ricorrono le condizioni, soltanto il differimento del decorso dei termini per l'impugnazione al momento in cui l'imputato abbia cognizione del contenuto della sentenza stessa".
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