Con la sentenza n. 34335 depositata il 23 settembre, la Corte di cassazione ha stabilito che il comportamento del curatore che si appropri in maniera indebita dell'eredita giacente, integra il reato di peculato e no quello di appropriazione indebita per la qualità di pubblico ufficiale rivestita dalla curatrice ereditaria. In particolare, la sentenza è l'esito del ricorso proposto da una curatrice di una eredita giacente per intervenuta rinuncia degli eredi del defunto, condannata per il reato previsto dall'art. 314 del codice penale, (peculato), per essersi appropriata, avendone la disponibilità in ragione del suo servizio, di 13 milioni di lire dal conto del de cuius. In primo e in secondo grado i giudici di merito l'avevano condannata per il reato di peculato, e non di appropriazione indebita in quanto la curatrice rivestiva la qualità di pubblico ufficiale o incaricato idi pubblico servizio, in quanto deputata a compito di salvaguardia del patrimonio in attesa della sua destinazione finale, e cioè le casse dello stato, per rinuncia degli eredi. La donna aveva motivato il ricorso sulla base dell'erronea applicazione della legge penale da parte dei giudici di merito, in quanto, si sarebbe trattato, al più, di appropriazione indebita con la conseguenza che, in mancanza di una querela o per prescrizione, doveva essere prosciolta. Aveva infatti negato la sua qualità di pubblico ufficiale, in quanto la nomina sarebbe stata illegittima e i compiti connessi alla funzione di curatrice avrebbero avuto natura strettamente privatistica. La sesta sezione penale, confermando le pronunce di merito, dopo aver spiegato che al di là della legittimità o meno dei presupposti di legge per attivare la procedura della nomina della (donna) a curatrice, "sta di fatto che tale investitura non può certamente considerarsi come proveniente da organo carente di potere e per questo inesistente, ma - a tutto concedere - semplicemente invalida". "Quanto alla qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio - ha continuato la Corte, entrando nel vivo della motivazione - rivestita dall'imputata e quindi all'eccepita non configurabilità del reato proprio, ma piuttosto di quello comune di appropriazione indebita (primo motivo di ricorso), devesi riassuntivamente osservare" che "il curatore della eredità giacente, nominato a norma dell'art. 528 c.c., va annoverato fra gli ausiliari del giudice dovendosi intendere per tale, secondo la definizione datane dall'art. 68 c.p.c., (…) il privato esperto in una determinata arte o professione e in generale idoneo al compimento di atti che il giudice no può compiere da solo (…). Tali caratteristiche sono riscontrabili nella figura del curatore della eredità: costui è tenuto sotto giuramento, ex art. 193 disp, att. c.p.c., a custodire e ad amministrare fedelmente i beni dell'eredità, sotto la direzione e la sorveglianza del giudice, da esplicarsi mediante appositi provvedimenti; esercita poteri di gestione finalizzati alla salvaguardia del patrimonio ereditario in attesa della sua definitiva destinazione; è obbligato al rendiconto della propria amministrazione, cui consegue l'approvazione e la consegna all'erede del patrimonio convenientemente gestito. (cfr. Cass. S.U. civili 21 /11/1997 n. 11619). Tali compiti sono espressione tipica della funzione pubblica esercitata in ausilio all'attività del giudice e, conseguentemente, non può negarsi la qualità di pubblico ufficiale del curatore dell'eredità giacente e la inquadrabilità della condotta di appropriazione di un bene ereditario da parte di tale soggetto qualificato nel reato proprio di cui all'art. 314 c.p.".
vedi anche:
Appropriazione indebita: guida legale
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