Con la sentenza n. 26056 la Corte di Cassazione ha stabilito che l'immigrato di fede cristiana, proveniente da un paese a maggioranza islamica, può ricevere protezione nel nostro paese se teme atti di persecuzione e anche se non fornisce prove concrete in ordine alla situazione del suo paese di origine. In questo caso, ha spiegato la Corte, il giudice deve svolgere un ruolo attivo nella istruzione della domanda di protezione internazionale, prescindendo dal principio dispositivo e fondando il sua decisione sulla possibilità di acquisizione officiosa di informazioni. Secondo la ricostruzione della vicenda che emerge dalla sentenza di legittimità, i giudici di primo grado avevano negato il riconoscimento dello status di rifugiato al nigeriano per assenza di prova dell'esposizione del richiedente nel suo paese a rappresaglie e vessazioni in ragione della sua fede cristiana e con riguardo ad una pretesa egemonia dei gruppi praticanti la shajria islamica. Il Tribunale aveva parimenti rigettato la richiesta (subordinata) di asilo mancando prova che lo Stato della Nigeria impedisse deliberatamente la libertà di culto. Anche i giudici di Appello avevano rigettato l'impugnazione proposta dallo stesso cittadino nigeriano, condividendo le motivazioni esposte dai giudici di primo grado sull'insufficienza delle prove. Su ricorso proposto dal cittadino nigeriano, i giudici di legittimità hanno condiviso i motivi a sostegno dell'impugnazione, facendo riferimento ad una sentenza della Corte per motivare la loro decisione. Si tratta della sentenza n. 17576/2010. Secondo i giudici che si sono espressi in riferimento ad un caso analogo, infatti "la Corte di merito, condividendo la valutazione del primo giudice, ha esaminato la domanda di protezione sotto l'ottica prevalente della credibilità soggettiva del richiedente, totalmente dimenticando di adempiere ai doveri di ampia indagine, di completa acquisizione documentale anche officiosa e di complessiva valutazione anche della situazione reale del Paese di provenienza, doveri imposti dall'art. 8 comma 3 del d.lgs. n. 25 del 2008 (emanato in attuazione della direttiva 2005/85/CE), norma alla stregua della quale ciascuna domanda deve essere esaminata alla luce di informazioni aggiornate sulla situazione del Paese di origine del richiedente asilo, informazioni che la Commissione Nazionale fornisce agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative". Per la Corte di Cassazione, che ha continuato a motivare il punto per relationem, i giudici di merito "hanno del tutto ignorato tale norma, secondo cui anche il giudice deve svolgere un ruolo attivo nella istruzione della domanda di protezione internazionale, del tutto prescindendo dal principio dispositivo proprio del giudizio civile e dalle relative preclusioni, e di contro fondandolo sulla possibilità di acquisizione officiosa di informazioni e documentazioni necessarie (in tal senso S. U. 27310 del 2008)". Gli Ermellini, hanno così concluso, accogliendo il motivo di gravame e spiegando che la Corte di merito ha erroneamente fatto gravare sul ricorrente "l'incombenza di provare la sussistenza del fumus persecutionis in suo danno, laddove la condizione di persecuzione di opinioni, abitudini, pratiche doveva essere appurata sulla base di informazioni esterne ed oggettive afferenti il Paese di origine solo la riferibilità specifica al richiedente poteva essere fondata anche su elementi di valutazione personali (quali, fra tanti, la credibilità delle affermazioni dell'interessato)".
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